Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
Vaia, la rinascita dopo il disastro boschi rigenerati da piccoli abeti
I problemi restano «Senza le barriere alberate le valanghe sono più pericolose Abbiamo pronti i piani di evacuazione per i paesi esposti»
ROCCA PIETORE (BELLUNO) «Non serve piantare nuovi alberi: la Natura vince sempre», dice il sindaco di Rocca Pietore, uno dei luoghi devastati dalla tempesta Vaia. Ha ragione: a distanza di un anno, dai boschi distrutti spuntano nuovi abeti rossi. Alti pochi centimetri, sono il simbolo di una rinascita che non attende l’intervento dell’uomo. Ma ora, con l’avvicinarsi dell’inverno, in quelle zone scatta l’allerta valanghe.
BELLUNO Da Col di Rocca il sentiero s’arrampica verso Soffedera, disegnando una diagonale di ciottoli lungo lo schienale del monte. Attraversiamo quello che fino a un anno fa era il bosco del Sas Négher e ora è soltanto un enorme cimitero di tronchi lunghi oltre venti metri e stesi a terra. Morti. Il paesaggio è grigio come la corteccia di quei giganti lasciati a marcire e, a una prima occhiata, non pare molto diverso da quello che si presentò agli occhi dei primi testimoni la mattina del 29 ottobre, quando finalmente pioggia e raffiche di vento smisero di bombardare il Veneto. Ci assale il sospetto che, dopo aver incassato i colpi di Vaia, in questi dodici mesi la montagna abbia sentito il bisogno di fermarsi a rifiatare. «E invece non è così: la Natura non si può arrestare, vince su tutto», annuisce soddisfatto il sindaco di Rocca Pietore, Andrea De Bernardin.
Per vedere con i nostri occhi, dobbiamo lasciare il sentiero e infilarci tra i tronchi e le radici divelte, fino alle radure più esposte al sole. Qui sono già spuntate le prime piantine. Sembrano bonsai, alti pochi centimetri: minuscoli abeti rossi di un verde acceso. «Il bosco ha iniziato la sua rinascita» annuncia trionfante De Bernardin. Per il sindaco del paese-simbolo della furia di Vaia, quegli alberelli in miniatura sono la dimostrazione che non serve procedere a una piantumazione. «L’uomo deve togliere di mezzo gli alberi schiantati e poi farsi da parte e aspettare: i germogli cresceranno, prendendo il posto dei loro simili abbattuti dalla tempesta».
Al momento, però, si è costretti a lasciare tutto com’è: togliere i tronchi senza prima costruire delle barricate, renderebbe l’inverno ancor più pericoloso per chi abita a valle. Sebbene siano distesi al suolo, infatti, gli abeti fanno da fermaneve, riducendo la possibilità che si formino delle valanghe.
Con l’abbassarsi delle temperature, è proprio questo il rischio che incombe sul Bellunese: «Fino a quando si manterrà al di sotto del metro e mezzo, il manto rimarrà ancorato agli alberi», assicura De Bernardin. «I guai arriveranno se le precipitazioni dovessero ricoprire interamente gli abeti: in quel caso saranno possibili dei distaccamenti».
L’amministratore delegato di Veneto Strade, Silvano Vernizzi, conferma: «Se ci saranno nevicate eccezionali, il piano prevede di evacuare i villaggi che eventualmente finirebbero sulla traiettoria delle valanghe. L’esposizione maggiore interessa Rocca Pietore, Livinallongo e Selva di Cadore. Ma al momento non c’è motivo di allarmarsi. E comunque questo sarà l’ultimo inverno in cui gli abitanti dovranno fare i conti con questa eventualità: per la costruzione delle barriere sono già stati assegnati appalti per 20 milioni di euro, e i lavori inizieranno a primavera».
La gente della zona non sembra preoccupata. In fondo, questi dodici mesi sono serviti agli abitanti per rielaborare lo choc di aver visto i lineamenti delle montagne stravolgersi per sempre. «Ricordo il rumore della pioggia e i colpi degli oggetti che venivano scaraventati via dal vento», racconta Davide Soraru, che abita in paese. «La mattina ho aperto la finestra e il bosco era sparito. In compenso, il tetto di una casa era piombato al centro della piazza…».
La mattina ho aperto le finestre e il bosco era sparito. Nella piazza del paese c’era un tetto
Vicino al municipio, giocano i bambini dell’asilo. In piena emergenza, la scuola restò chiusa e i locali servirono ai soccorritori come cucina da campo. Di quei giorni restano i disegni che le maestre hanno appeso nel corridoio e che raccontano la paura per la tempesta e il blackout che seguì, ma anche l’eccitazione dei piccoli seguita all’arrivo di elicotteri e ruspe.
Proseguendo dal centro del paese e superato l’imbocco del sentiero a Col di Rocca, arriviamo in località Palue. Il villaggio è di quelli da cartolina, con i fienili in legno, i tetti a punta e le stradine strette che d’estate si riempiono di fiori. Si trova esattamente sotto la galleria che fu fatta realizzare dalla Sade (la stessa società che gestiva la diga del Vajont) settant’anni fa, stoccando il materiale di escavazione lungo il versante. Sembrava un luogo sicuro. E invece tra il 28 e il 29 ottobre sui boschi è caduta così tanta acqua da spazzare via i muretti di contenimento e trascinare a valle tonnellate di rocce e fango. In pochi minuti il Ru de le Ciaudiere, un piccolo torrente che attraversa il borgo, è tracimato. «La casa tremava sotto i colpi dei massi che rotolavano a valle», racconta la ventenne Anna Fersuoch. «Al pianterreno l’acqua è entrata da una finestra e ha raggiunto una tale pressione da sfondare la porta in ferro. Per fortuna nessuno s’è fatto male...».
Oggi anche Palue è stato risistemato, grazie ai finanziamenti pubblici. Di Vaia resta l’umidità che gonfia il legno dei mobili nelle cucine, oltre alla ruggine che riveste il pilone della luce per almeno un paio di metri: l’acqua era arrivata fin lì.
Nel borgo abita anche Cristian Darman, un volontario dei vigili del fuoco. «Io e i miei colleghi passavamo da un intervento all’altro, da un allagamento a un’allerta per alberi caduti. Siamo andati avanti così per ore, senza sosta. A causa del blackout si vedeva soltanto ciò che illuminavano i fanali del fuoristrada, non capivamo che razza di inferno si stava per scatenare. Poi, prima dell’alba, tornando a casa ho visto un muro d’acqua: era il lago di Alleghe che ci veniva incontro…».
Accanto al rischio-valanghe, quello delle esondazioni è l’altro fronte che preoccupa gli amministratori. Il ciclone ha riempito di detriti il letto dei torrenti e, fino a quando non saranno ripuliti, basterà qualche giorno di pioggia per causare nuovi allagamenti. Vale anche per la zona di Auronzo, a circa 70 chilometri da Rocca Pietore. Lì sorge un altro luogo-simbolo di Vaia: la diga del Tudaio, gestita da Enel. Le foto del bacino completamente ricoperto da migliaia di tronchi galleggianti, fecero il giro del mondo dando a tutti l’esatta percezione dell’immensa violenza abbattutasi sulle nostre montagne.
Un anno dopo, ritroviamo l’invaso completamente ripulito. Fin dalla scorsa primavera, EnelGreenPower ha cominciato a liberare l’acqua dai detriti e in pochi mesi sono stati recuperati diecimila metri cubi di legname. «Il materiale è stato stoccato in aree messe a disposizione dalle amministrazioni locali – assicurano dalla società energetica – e ora potrà essere impiegato per altre destinazioni d’uso».
Si riparte da qui. La «tempesta perfetta» non può essere cancellata. Ma almeno adesso le ferite fanno un po’ meno male.