Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
EMIGRARE, QUEL DOPPIO FILO
Era ora che si aprisse un dibattito vero sulle emigrazioni italiane verso l’estero: anche se sorprende la sorpresa per la scoperta, sono riprese, a ritmi crescenti, da anni. Ed è bene che si provi – finalmente – a mettere sul tavolo soluzioni, e non solo slogan. Ma per poterlo fare con cognizione di causa, bisogna avere un’idea realistica di quello che sta succedendo: e, ancora, non ci siamo.
La prima cosa da fare è collegare – e insieme separare – il dibattito sull’immigrazione e quello sull’emigrazione.
Collegarli concettualmente, perché rispondono alla stessa ricerca di orizzonti migliori, che produce la mobilità umana, qualunque nome le si voglia dare: capire che i desideri e i bisogni di chi arriva sono gli stessi di chi parte può aiutarci a riumanizzare il dibattito e al contempo a razionalizzarlo, uscendo dalla logica (illogica) degli slogan contrapposti, inutili e fuorvianti. Separarli funzionalmente, perché l’una non è causa dell’altra: le partenze non sono conseguenze degli arrivi (anzi, propriamente non c’entrano quasi niente: tranne per i livelli più bassi e che presuppongono meno – o nessuna – istruzione). Se anche non ci fossero gli arrivi, le partenze ci sarebbero comunque. E se anche non ci fossero le partenze, gli arrivi ci sarebbero comunque. Perché corrispondono a segmenti differenti di mercato del lavoro.
Dobbiamo ammetterlo una volta per tutte. I nostri emigranti partirebbero comunque, perché cercano chances e opportunità che da noi, semplicemente, non ci sono: non in maniera assoluta, ma in termini relativi – non abbastanza, non per tutti. I salari sono troppo bassi, e se hai una qualificazione di qualche tipo ti conviene spenderla altrove. Lo stesso motivo per cui non siamo attrattivi: perché mai uno straniero, dato il differenziale salariale, dovrebbe venire da noi? E infatti arriva solo chi accede a ruoli apicali, ben pagati per definizione (manager, dirigenti, tecnici, poco altro), e chi al contrario trova un miglioramento anche solo nell’accedere a un lavoro purchessia, rifiutato dagli italiani (i lavori dirty, dangerous and demeaning, sporchi, pericolosi e degradanti – e, aggiungiamo, malpagati e non protetti – che infatti gli immigrati accettano anche in presenza di qualificazioni più elevate).
Dopodiché, bisogna uscire dal solo paradigma salariale. Chiunque abbia qualche esperienza della nostra emigrazione – giovanile ma non solo – sa che il differenziale salariale ha un buon effetto di spinta (o se si preferisce di attrazione), ma un assai più modesto effetto di ritorno. In altre parole, chi parte, attratto da salari più elevati, ma anche e forse soprattutto da paesi meglio funzionanti, con maggiore attenzione al merito, sistemi di welfare più protettivi, aperti alle differenze (di tutti i tipi: culturali, nazionali, etniche, religiose, sessuali), più rispettosi dell’uguaglianza di genere, molto meno gerontocratici, con maggiore mobilità sociale, poi, in buona parte, anche a parità di offerta salariale, non tornerebbe indietro. Ecco perché lavorare sui salari di ingresso (incentivi, cuneo fiscale e quant’altro) è ovviamente doveroso e necessario, ma è solo un pre-requisito, di per sé insufficiente. E lavorare sul resto è naturalmente un lavoro di lungo periodo e assai più complicato, a cui nessuna elite
(tanto meno in ambito politico) ha mai voluto veramente mettere mano. Perché ci sono precise rendite politiche legate a questi elementi: dalla chiusura mentale (pluralismo culturale e religioso, orientamento sessuale) alla xenofobia (con annessa logica del capro espiatorio nei confronti degli immigrati: «prima gli italiani», o i veneti, a scelta) fino alla gerontocrazia (che include tanti aspetti: da quota 100 a una mentalità che non farebbe mai entrare un trentacinquenne – peggio se donna – in un consiglio d’amministrazione). E perché presuppone lungimiranza e investimenti: in una parola costa in conoscenze (a cominciare dall’abc della demografia), in capacità di visione (che non è data: si conquista, con la cultura e il confronto) e in investimenti, cioè in denaro (che andrebbe tolto alle rendite e ai settori parassitari).
Per cui, prendiamo questo dibattito come un inizio di discussione. Sperando – e non è per nulla scontato – che continui.