Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
Come eri vestita?
Abiti delle sopravvissute agli stupri in mostra al Castello di Peraga Violenza, abusi e stereotipi narrati da donne e bambine
Una camicia bianca lunga, abbottonata fino al collo. Pantaloni neri larghi, eleganti. «Scelgo abiti sobri per l’ufficio, ogni giorno. Lui era il mio capo, stavo attenta a non provocarlo. Ma quella sera, il cuscino in faccia che m’impediva di respirare e io, bloccata, non avevo la forza di reagire...». Leggins neri, maglione accollato. «Lui era amico di amici. Il tribunale ha decretato: il fatto non sussiste».
Una felpa colorata, i jeans. «Ma la mia amica mi disse: forse l’hai provocato tu».
Le donne sopravvissute a violenza e stupri raccontano. E lo fanno attraverso i loro abiti, esponendo i vestiti che avevano al momento dell’aggressione. S’intitola Com’eri vestita? la mostra al Castello di Peraga (Padova), che rievoca in maniera provocatoria la domanda che sempre eccheggia tra tribunali e forze dell’ordine e che punta il dito contro chi ha subito violenza, non sugli aggressori.
Un progetto voluto dal Centro Antiviolenza Cerchi d’Acqua della Lombardia, portato nel Veneto dal Comune di Vigonza con l’assessorato Pari Opportunità e il Centro Veneto Progetti Donna Onlus. L’obiettivo è sfatare stereotipi e scuotere il pubblico. La carrellata di vestiti appesi nelle sale del Castello non lascia indifferenti.
La violenza e gli stupri possono essere evitati cambiando vestito? Evidentemente no. Quest’esposizione lo dimostra. L’abuso si nasconde soprattutto tra le pieghe di una relazione, quando il partner costringe a rapporti sessuali, li pretende. Si chiama stupro, anche questo. Il pigiamone imbottito e lungo fino ai piedi non serve. È appeso lì, quel pigiama, sul muro bianco del Castello di Peraga. «Indossavo più strati di vestiti la notte, ma questo non gli impediva di fare quello che voleva». Accanto ai vestiti, la testimonianza delle donne. Frasi brevi, affilate. Colpiscono al cuore. Fanno riflettere. Una t-shirt, un paio di jeans anonimi. «Maglietta e jeans, come una qualsiasi adolescente. E tu magistrato mi chiedi com’ero vestita?».
Un tailleur nero, gonna lunga, giacca abbondante. Sotto una camicetta chiusa fino all’ultimo bottone. Brutto. Certo non provocante. Eppure a subire l’interrogatorio, a dovere spiegare, è lei. La vittima.
Una sala è dedicata alle bambine, violentate da parenti, genitori, amici di famiglia.
Un grembiulino blu da scuola elementare. «Appena tornavo da scuola correvo a chiudermi nella mia cameretta. Nascosta tra i miei pelouche mi sentivo al sicuro».
Un costumino rosa. Accanto, la frase che inchioda: «Ora posso fare il bagnetto?». Nel senso di «adesso che hai fatto quello che volevi, mi lasci andare a lavarmi?».
La salopette di jeans sopra una maglia a fiorellini. «Minacciava di chiudermi in quella soffitta spaventosa se non stavo zitta». Un abitino blu lungo. «Mia madre mi disse: metti il vestito che hai usato al matrimonio della zia, così il giudice capisce che sei una brava bimba». Perchè nei tribunali, oggi come ieri, le bambine, le ragazze e le donne devono dimostrare di essere «brave».
Il sindaco di Vigonza Stefano Innocente Marangon dice: «È una proposta forte, vogliamo sensibilizzare sia uomini che donne». Elena Biolcato Rinaldi, presidente della Commissione Parità di Vigonza, spera di riuscire a coinvolgere i ragazzi delle scuole.
Mariangela Zanni del Centro Veneto Progetti Donna, sottolinea: «La violenza, anche quella sessuale, avviene tra le mura di casa, all’interno delle famiglie e solo in percentuale minima dallo sconosciuto in stazione. Tutti gli abiti della mostra sono stati realmente indossati dalle donne che si sono rivolte ai centri antiviolenza»