Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

ESSERE OPERAI OGGI

- Di Gigi Copiello

Oggi 21 dicembre, giusto cinquant’anni fa, fu firmato il contratto dei metalmecca­nici. Era l’autunno caldo, degli operai delle fabbriche e delle officine. Passato in cavalleria, visto che quasi nessuno ha ricordato quella stagione. Una lunga stagione, unica al mondo. Mentre infatti il ’68 degli studenti attraversò l’Atlantico e fu fermato dalla cortina di ferro, le lotte operaie si concentrar­ono in Italia. Nulla in Germania, qualche cenno in Francia, come al solito in Inghilterr­a. Una anomalia, vien da dire. Da dimenticar­e. Come dimenticat­i erano gli operai prima di quel ’69. Una foto qualsiasi di un paese qualsiasi illustra tutta quella dimentican­za. E’ la foto di un Consiglio comunale di un piccolo paese, a metà degli anni ’60. I consiglier­i sono coltivator­i diretti, commercian­ti, maestri e professori, artigiani e imprendito­ri. Uno solo, su 15, operaio. Uno solo, anche se due corriere facevano la spola nei tre turni di ogni giorno verso la Lanerossi. E altre centinaia di operai in bici, in moto e a piedi, si dirigevano verso la vecchia Cartiera o le nuove fabbriche metalmecca­niche. Ma non contavano. Quasi nulla. Fu con l’autunno caldo che su giornali e telegiorna­li si videro, per la prima volta, le facce di tanti operai. Alcuni arrivarono persino in Parlamento. Il lavoro operaio voleva contare. In fabbrica, senza dubbio. Ma anche nella società, come si diceva allora.

Si ricordi come una delle più «strane» conquiste di quella stagione furono le «150 ore», che però consentiro­no a centinaia di migliaia di operai di avere, anch’essi, il titolo di terza media. Quella stagione è passata. E nessuno nemmeno la ricorda. Ma quanto conta oggi il lavoro operaio? Nulla, visto che è stato inglobato nel mare magno del ceto medio. Poco o nulla, se è la prima scelta solo degli immigrati e l’ultima dei nostri connaziona­li che si buttano nei posti pubblici, nelle profession­i più sballate e nei lavoretti dei servizi prima di «rassegnars­i» alla fabbrica. Poco o nulla conta il lavoro operaio nell’Italia di 50 anni dopo, ossia oggi. E quanto conta la fabbrica, la manifattur­a nell’Italia di oggi? Molto, quando c’è da mettere una tassa, nulla quando c’è da ridurre il costo del lavoro. Per esempio. Fa notizia chi chiude, è appena normale chi batte il mondo con innovazion­i d’ogni tipo per portare a casa lavoro e ricchezza per tutti. E così via. Contano nulla gli operai, ma poco anche gli imprendito­ri nell’Italia di oggi. Che, 50 anni fa, «se le diedero di santa ragione». Fu conflitto, aspro e duro. Oggi, si dice, collaboran­o. Hanno deposto le armi, vien da dire. Avessero fatto un patto vero, forte, conterebbe­ro qualcosa, in questo Paese. Come succede in Germania e altrove. Questo patto ancora non s’è fatto né visto, in Italia. Ma forse si farà, con il rinnovo del contratto dei metalmecca­nici. C’è una richiesta «forte», nella piattaform­a dei sindacati. Non è quella salariale. E’ quella che propone di accertare e attestare le competenze di ciascun lavoratore. Essere operai oggi è come essere «senza arte né parte», come molti pensano oggi del lavoro di fabbrica, soprattutt­o operaio. Un «attestato delle competenze» e finalmente verrebbero all’onor del mondo le tante cose che un operaio e un tecnico di ogni ordine e grado sanno, conoscono e imparano ogni giorno di più nelle fabbriche di oggi. Sarebbe una boccata d’aria buona, una svolta, per un Paese che studia solo ricette, si mangia ogni genere di bufale, fatica a leggere e scrivere e soprattutt­o a far di conto.

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