Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
Artigiani, un piano per «affascinare» ragazzi e stranieri
Artigiani, piano per i giovani
VENEZIA Perché i giovani veneti non vogliono più fare gli artigiani? E perché gli stranieri non vengono qui? Parte da queste domande lo studio che Confartigianato ha commissionato all’università di Padova, teso ad attrarre nuovi talenti nelle imprese: «Basta con gli stereotipi sulla scuola che non forma adeguatamente dice Bonomo - chiediamoci cosa offriamo noi ai ragazzi, dentro e fuori l’azienda».
VENEZIA Aprire un’impresa artigiana? No grazie. La sfida non attira i ragazzi di oggi, almeno non quanto i ragazzi di ieri: nel 2009 nella fascia d’età 35-39 anni gli artigiani erano il 10,6% della popolazione; oggi sono il 5,1%. Nella fascia 30-34 anni erano l’8,2%; oggi sono il 3,6%. Dai 25 ai 29 anni erano il 4,4%; oggi sono il 2,2%. La metà. Il motivo? Lo spiega con una metafora il neo direttore di Confartigianato Veneto, Sergio Maset: «Si partecipa al gioco se la probabilità di vincere, rispetto all’ammontare del montepremi, è allettante. Oggi non è così: il montepremi si è ridotto, per molti il gioco non vale la candela. E non per colpa dei giovani: gli spazi si sono ristretti ed è più difficile partire. Dobbiamo riattivare il montepremi se vogliamo evitare il declino».
Il come è al centro dello studio realizzato da Paolo Gubitta, professore di organizzazione aziendale dell’università di Padova, presentato ieri dal presidente di Confartigianato Agostino Bonomo e dal direttore uscente Francesco Giacomin. Gubitta ha condotto una ricerca in 21 aziende considerate un’eccellenza nei campi della meccanica di produzione, dell’impiantistica, delle autoriparazioni e ne ha ricavato 10 punti utili ad ispirare le altre a «cambiare il loro lavoro», per renderlo più attrattivo per le nuove generazioni. La rivoluzione, ovviamente, passa per la digitalizzazione, e deve partire dal titolare, per poi essere affidata a collaboratori che ne facciano una mission, magari formati da consulenti, anche a distanza (non necessariamente abbandonando le loro mansioni: un’azienda su due, secondo lo studio di Confartigianato, ed un lavoratore su quattro ben potrebbero dedicarsi al «lavoro ibrido»).
La rivoluzione può passare attraverso l’uso di cloud e database di ultima generazione ma anche attraverso il banale WhatsApp: «Una chat, ad esempio, può rivelarsi utilissima per connettere titolare, e collaboratori, organizzando al meglio il lavoro nell’arco della giornata - spiega Gubitta -. Allo stesso modo, un’iPad connesso all’archivio informatico aziendale può aiutare un artigiano a risolvere un problema inatteso senza dover tornare due volte dallo stesso cliente». Parafrasando Gene Wilder, insomma, si può fare. E non è detto sia un’impresa titanica: alle volte basta «contaminare» giovani e meno giovani (anche se la digitalizzazione necessariamente allarga la forbice tra il lavoro qualificato e quello non qualificato), responsabilizzare i collaboratori e delegare di più, imparare dai propri fornitori a loro volta impegnati nel processo di crescita. «Tutto questo - conclude Gubitta - trasforma l’impresa artigiana in una “palestra di apprendimento”, attrattiva e professionalmente intrigante, che come tale va comunicata sul mercato del lavoro per convincere i ragazzi a mettersi in gioco. Queste realtà d’eccellenza sono guidate da manager arrivati da fuori, figli laureati dei fondatori, seconde generazioni illuminate».
Un cambiamento di «contenuti» e di «narrazione» che secondo Giacomin dovrà necessariamente investire anche le associazioni di categoria («Pensiamo ai contratti: vanno adeguati al lavoro che cambia, non possiamo restare fermi agli anni Sessanta») e che Bonomo allarga a tutta la società veneta: «Sentiamo ogni giorno lamentele sulla scuola, che offre poco, non dà una formazione adeguata... stereotipi. Istituti tecnici e università stanno facendo un ottimo lavoro, innovano e danno ai ragazzi tutti gli strumenti necessari per essere dinamici. Io ribalto la domanda: siamo sicuri di essere noi attrattivi per questi ragazzi? Cosa offriamo loro dentro e fuori l’azienda? Perché va bene la battaglia per le infrastrutture o quella per la banda larga, ma quando un ragazzo ha passato in azienda dieci ore, cosa trova fuori? Sono queste le domande a cui dobbiamo dare risposta, se vogliamo che i giovani veneti non lascino il Veneto e giovani da tutto il mondo accettino di venire qui».