Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

CHI SONO I VERI INDIGENI

- Di Luigi Copiello

Trentacinq­ue anni fa, sul far della sera, calavano dagli abeti i lori cartoni e Campo Marzo di Vicenza diventava un gran dormitorio all’aperto, sotto le stelle. Di mattino presto, riponevano i cartoni sugli abeti e prendevano le corriere verso le concerie di Arzignano e Chiampo. Non sapevamo se erano neri dell’Africa o dell’India o di chi sa dio dove. Ma sapevamo che lavoravano in nero.

Il ricordo mi sovviene leggendo la storia di Maty, la splendida ragazza di Chiampo, e di suo papà che arrivò dalle nostre parti giusto in quegli anni. Oggi, tranne qualcuno che s’è preso in ritardo, siamo tutti orgogliosi e fieri di Maty, di suo padre che lavora in conceria e della sua bella famiglia. Siamo tutti buoni e «buonisti», per un giorno e per un caso.

Siamo tutti contenti: non ci fossero gli immigrati che ormai da due generazion­i fanno il lavoro «sporco», non ci sarebbe la concia di Arzignano e Chiampo e la ricchezza di tanti che si conta a miliardi e milioni, in quelle valli. Non fossero arrivati gli immigrati, sarebbe emigrata la concia, come si paventò qualche tempo fa, con la scusa di andare a conciare alla fonte, e cioè dove si producono le pelli (Argentina, ad esempio).

Siamo tutti contenti. Ma i problemi restano. Resta il problema di entrare legalmente al lavoro in Italia. Chiedete a qualche impresa le trafile, il tempo e i soldi consumati per assumere un tecnico o un dirigente, ancorché di pelle bianca e ottimi studi, ma provenient­e da Paese non Unione Europea.

In molti casi è cosa del tutto impossibil­e, quando il Paese di provenienz­a è in guerra o retto da dittature: mancano i documenti, le autorizzaz­ioni e la via che rimane è sempre una qualche sanatoria, a reato consumato ed ex post. Siamo la patria del diritto, dicono molti «patrioti». Che nulla hanno fatto perché la via maestra dell’immigrazio­ne fosse regolata da leggi, accordi e pratiche chiare e precise. Quelle che non ci sono e fanno di ogni immigrato un clandestin­o. E resta il problema dell’inclusione. Su cui vorrei portare il caso mio. Sono stato «tormentato» dal mio cognome per decenni. Quando, da sindacalis­ta, facevo arrabbiare gli operai veneti (succedeva spesso), mi arrivava sempre un «tasi, teron», in ragione del cognome portato agli onori da Edoardo De Filippo con «Natale in caso Copiello».

È stato un altro libro, tra i tanti di Umberto Matino, a dare una svolta alla mia vita, quando cita il notaio Gorlin che attesta le ruote idrauliche a copiello nelle miniere di argento del Tretto. Ma anche Bruno Tamiello, nel suo cinquecent­esco maglio in quel di Breganze, tiene una ruota di mulino con pale a copiello. Gli studi proseguono e verrà fuori che, piuttosto che napoletano e terrone, sono di stirpe (o razza?) cimbra. Di nuovo e daccapo, foresto: calato dai boschi della Baviera, di lingua strana, devoto senz’altro a Dio ma anche «naturalmen­te inclinato alle guerre», come scriveva il parroco di Laghi secoli or sono. Sarà per questo che oggi non sono tanto contento e buono, come tutti in questo giorno. Sono sempre foresto. Ma chi sa mai chi è l’indigeno doc, certificat­o nei secoli dei secoli. Amen.

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Se facevo arrabbiare gli operai veneti, mi arrivava sempre un «tasi, teron», per il cognome portato agli onori da Edoardo De Filippo con «Natale in casa Copiello»

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