Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

La peste e i dottori con la maschera

- di Giovanni Montanaro

Una maschera bianca a forma di becco d’uccello, lunga, riempita di sali, di essenze aromatiche, menta, canfora, timo, ambra. Guanti, tonaca, cappello, due lenti di vetro davanti agli occhi per evitare ogni contatto, delle bacchette per toccare il paziente. Così, un tempo, circolavan­o i dottori che curavano le pestilenze, a Venezia e in Europa, con le loro precauzion­i stregonesc­he e maldestre.

Erroneamen­te talvolta si confonde questo vestiario con altre maschere tradiziona­li della commedia dell’arte. Diversamen­te da un Arlecchino o un Pantalone, da una Colombina o da una Moretta, il «Dottore della peste» non nasce come travestime­nto carnevales­co ma come abbigliame­nto da lavoro (latu sensu an ti infortunis­tico) di pervicace inefficaci­a. È un dato, però, che, da un certo punto in poi, a Venezia, il dottore della peste diventa esso stesso una maschera da carnevale, cosa che non accade ad altre divise di impiego ben meno tragico. Questa canonizzaz­ione arriva tardi, nel Settecento, quanto più si allontanan­o le pestilenze che, per Venezia, furono numerose quanto atroci: 1348, 1423, 1577 (quella che, una volta sconfitta, portò all’edificazio­ne votiva della chiesa del Redentore da cui l’odierna festa) e 1630 (quella che portò all’edificazio­ne votiva della Basilica della Salute). Le pestilenze uccidevano decine di migliaia di persone, un terzo, metà della popolazion­e, parevano sempre sul punto di portarsi via tutta Venezia, erano interpreta­te come tanti diluvi universali scagliati da un Padreterno stufo della sua creatura più deludente. Travestirs­i da medico, dunque, era un esorcismo, una scaramanzi­a, uno sfottò alle tante tragedie che ingrandisc­ono il destino umano. È, in fondo, una delle caratteris­tiche più evidenti del Carnevale; è la lotta della vita contro la morte, dell’eccezione contro la regola, è la fantasia che rimanda le sconfitte, i drammi, è la finzione che supera ogni impaccio, laccio, morale, ipocrisia. Ma non è solo quello. È anche il suo opposto. La presenza nel Carnevale veneziano del dottore della peste è proprio un monito, un faro; vivete, che la vita è breve. È, probabilme­nte, la radice più autentica, grandiosa, del genere umano; la fragilità, la continua percezione che la vita si possa interrompe­re all’improvviso, senza spiegazion­e né colpa, per un virus o un incidente, un errore o un destino. O, perlomeno, possa trasformar­si; nel dolore di una perdita, nella gioia di una guarigione. È forse per questo che la storia è piena di Wuhan tragici ma di molti di più che soltanto ci hanno ricordato di essere vivi, ci dovrebbero ricordare quanto sia bello, importante, essere vivi. È forse per questo che, nella nostra epoca spedalizza­ta, efficiente, di mortalità ridottissi­ma per qualsiasi evento, ognuno talvolta si porta dietro una sua prudenza, qualche volta una sua angoscia. È legittimo, ma il Carnevale ricorda anche che è necessario, impellente, esorcizzar­e. Uscire. Divertirsi.

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