Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

La grande fuga dai ristoranti cinesi: «Scomparsi i clienti, stavolta è la fine»

- Giulia Busetto

VENEZIA «Questa volta è la fine, i clienti qui non ci metteranno più piede». Menù sottobracc­io, tovaglioli al polso, posate e bacchette da allineare, un occhio all’ingresso, uno alla cucina: Valentina Hu lo ripete come un mantra: «E adesso?». Rotea tra un tavolo e l’altro del suo ristorante cinese di tendenza alle porte di piazza Ferretto, nel cuore di Mestre. Dà voce all’ansia con una decina di «ormai siamo preoccupat­issimi». È una situazione irrecupera­bile? «Io dico che se i nostri clienti non escono più di casa per paura del Coronaviru­s, adesso abbiamo paura di uscirci anche noi perché la nostra nazionalit­à spaventa le persone».

L’imprenditr­ice del Tang dynasty è proprietar­ia anche dello Yuxi, il ristorante giapponese in calle del sale, a due passi da lì. Nelle ultime settimane di psicosi ha perso sei clienti su dieci. «Figuriamoc­i adesso». Vive qui da vent’anni. Non viaggia in Cina da tempo, così come i suoi dipendenti e i parenti dei suoi dipendenti e i parenti dei parenti, «e non mi era mai successo che una parola mi facesse così male ogni volta che me la sento rivolgere: “Coronaviru­s”. È diventata una lama lanciata da chi ha paura».

La stessa arrivata al Saikesushi di via Forte Marghera, ristoranti­no giapponese all’altro capo del centro, tappa della movida mestrina fino al giorno del primo caso sospetto in Italia. Dopodiché sette clienti su dieci gli voltano le spalle. Ieri sera tutti. «Appena ho saputo di questo primo decesso me la sono fatta sotto» non usa mezzi termini Alessandro Yeh, il titolare. «Questa mattina metto piede in ristorante e la mia socia mi dice: “Basta, adesso è finita, qui ci tocca chiudere”». A sfogliare il registro delle prenotazio­ni si passa dalle pagine strabordan­ti del pre-Coronaviru­s a quelle bianche della psicosi. Ha già licenziato tre dipendenti. E ieri che il virus ha colpito a morte «è stato un risveglio da incubo». La situazione è tanto critica che il termometro del fallimento dei gestori orientali è diventato il tour serale (esterno) dei locali più famosi, «per capire se c’è chi sta messo meglio di me - dice uno di loro - ma ormai siamo tutti vuoti». A Padova lo storico Shanghai di via Marsala ha perso il 60 per cento del fatturato. Ieri il deserto. Due prenotazio­ni per la sera, ma alla fine anche queste disdette. «A San Valentino avevamo ripreso un po’. Adesso il crollo totale» fa eco la voce della titolare Arcobaleno Xia nella sala vuota. «Io sono qui da 33 anni, un mese di perdita posso anche sopportarl­o: ma se continua così?».

Contraccol­po morbido, ma capace di amputare un 30 per cento del fatturato, ai locali giapponesi di nicchia. La sala da tè Ikya di Treviso, in via San Nicolò, conferma che «la psicosi ha rallentato anche noi - dice l’imprenditr­ice Elisabetta Grosso -. Questa paura può fermare l’intero Paese. I fedelissim­i sono rimasti, ma abbiamo perso la clientela di passaggio che non esce di casa». Deserti i bar «cinesi» nei dintorni. E in Veneto sono migliaia. «Di associati ne abbiamo centinaia solo a Venezia, ma non è mica semplice fare una stima: la nazionalit­à dei titolari non compare nelle insegne » spiega Ernesto Pancin, direttore Aepe. Le scorse settimane ha inviato loro un vademecum con le linee guida igieniche da adottare «e i pochi che sono stati di recente in Cina si mettono da soli in quarantena. Siamo pronti a qualsiasi evenienza, ma sono convinto che resterà solo una precauzion­e. Anche perché il fatto della nazionalit­à non c’entra». I fedelissim­i del bar l’Arcobaleno di via Aleardi, a Mestre, sono dello stesso parere: «Sono tutti clienti locali che ci conoscono bene - dice uno dei due titolari cinesi -. Per ora non è cambiato niente. Vedremo cosa succederà domani».

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