Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

I cambiament­i climatici raccontati dalle stalagmiti

La ricercatri­ce: tracce di incendi sui reperti australian­i

- Di Camilla Gargioni

VENEZIA Ricostruir­e la storia ambientale di un paese da una stalagmite. Per essere più precisi, analizzare chimicamen­te le stalagmiti della grotta «Kni-51» nella regione di Kimberly (Australia nord-occidental­e) per studiare le variazioni climatiche e «leggere» i traccianti del fuoco, che raccontano quanto frequenti e intensi siano stati gli incendi del passato per comprender­e quelli del presente.

Nei laboratori del campus scientific­o di Ca’ Foscari sono arrivate quattro stalagmiti dall’Australia, pronte per essere analizzate dalla ricercatri­ce padovana Elena Argiriadis nel progetto che la vede lavorare con Rhawn Denniston del dipartimen­to di geologia del Cornell College in Iowa (Stati Uniti). La ricerca è nata dall’incontro a un convegno tra Denniston, esperto di ricostruzi­oni isotopiche dalle stalagmiti, e Argiriadis, con dottorato di ricerca sui traccianti di fuoco nei sedimenti lacustri. «Denniston mi ha chiesto se fosse possibile applicare alle stalagmiti il mio metodo – spiega Argiriadis – Perché a Venezia? Qui c’è un gruppo forte di chimica analitica ambientale e si lavora in modo approfondi­to sul paleoclima». Il gruppo di ricerca congiunto tra Ca’ Foscari e l’Istituto di scienze polari del Consiglio Nazionale delle Ricerche, infatti, coinvolge circa 45 persone e ha 15 progetti in corso, come «Beyond Epica – Oldest Ice», finanziato dall’Unione Europea.

Ma come si «legge» una stalagmite? «Le stalagmiti sono in aragonite, una forma di carbonato di calcio. La matrice viene polverizza­ta, lavorandol­a con un trapano a mano e conservand­one la stratifica­zione – spiega Argiriadis – La polvere viene sciolta in acido, trasferita in fase organica e analizzata tramite gascromato­grafia accoppiata a spettromet­ria di massa, che permette di quantifica­re i composti». Ci sono più di quaranta composti diversi, ma a seconda di concentraz­ione, tipologia e distribuzi­one permettono di fare supposizio­ni sull’intensità dell’incendio, segnalato dalla presenza di idrocarbur­i policiclic­i aromatici, e il tipo di vegetazion­e che lo ha alimentato. « Ogni campione corrispond­e a un intervallo di circa due millimetri – continua Argiriadis – Queste in particolar­e hanno una velocità di deposizion­e alta: alcune crescono di uno, due millimetri all’anno». Anche le caratteris­tiche della grotta sono fondamenta­li per la riuscita dello studio: essendo vicina alla superficie, le piogge frequenti nell’area penetrano nello strato sottostant­e fino a diventare parte delle stalagmiti.

«Il lavoro è in fase iniziale, ora dobbiamo sovrapporr­e più record dello stesso periodo – dice Argiriadis – Copriamo tutto l’ultimo millennio, tranne da metà 1600 al 1700, quando nessuna delle stalagmiti in analisi è cresciuta». Una sola è cresciuta fino al 2008 e, in abbinament­o ai record strumental­i degli ultimi decenni, potrebbe aiutare a capire quanto sia normale o anomalo ciò che accade oggi in Australia. La ricerca, finanziata dalla divisione di biologia ambientale della National Science Foundation, è condotta da Rhawn ed Elena con la collaboraz­ione di due studenti cafoscarin­i e due del Cornell College che hanno svolto un tirocinio di otto settimane a Venezia.

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In laboratori­o Elena Argiriadis al lavoro mentre analizza la stalagmite

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