Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
La fuga dai monatti che ci fa sentire tutti più vivi e forti
«Mi pare che tu ce l’abbia, la tua capanna in Canada – cinguetta al telefono un’amica, di solito molto presenzialista, e piena di languori protofemministi – perché non ci andiamo insieme? Quest’anno mi sono stufata della festa dell’8 marzo, e poi là certo il virus non ci raggiunge». Questo è lo scopo reale della telefonata, fuggire dal contagio. Mi viene un brivido all’idea di condividere con lei la mia casetta di Campel, alta sopra Cergnai di Santa Giustina Bellunese; sento già la sua voce sovracuta e squillante echeggiare nelle piccole stanze che amo, e subito mi avvolge una desolazione sottile, un senso di panico improvviso.
La sua malcelata paura però un po’ mi contagia, mi fa sentire debole, anche fragile. E non c’è più Paolo che si divertiva a prendermi in giro, e a tagliare i miei dubbi con decisi colpi di spada. «Siamo persone a rischio», sussurra una vocina dentro di me, e il caldo larin di Campel mi appare davanti, con la fiamma viva, gli schiocchi del legno e il sedile quadrato di pietra tutto intorno. E sopra, la tendina rossa, i bicchieri colorati e il profumo stuzzicante degli spiedini e delle salsiccette.
Fuori, mi appare il mitico monte Pizzocco, la prima dolomite della mia infanzia, con le sue due facce così diverse, i suoi colori così diversi: il maestoso Corno Dogale rivolto verso la valle del Piave e la pianura, il volto severo di Garò l’armeno rivolto verso la nostra Val Scura dalle ombre mormoranti e dall’ombra precoce, annidata intorno al canyon selvaggio del freddo torrente Vesès. Fuggivano dalla pestilenza sui monti, i nostri antenati? Oppure aspettavano nella desolazione delle città infestate, nelle case sbarrate, spaventati e silenziosi, l’arrivo dei monatti e delle loro sconce grida? È ancora la Val Belluna il luogo del riposo e dei giochi estivi, delle guance rosse e delle corse sfrenate, delle mitiche merende di zia Agnese? O le nostre paure ci seguirebbero ovunque,
"Fuori, mi appare il mitico monte Pizzocco, la prima dolomite della mia infanzia
disabituati come siamo ad affrontare imprevisti e sventure, non più consapevoli che possono sempre stare dietro l’angolo e raggiungerci impreparati? Le ragazze in fiore dei secoli passati conoscevano bene i rischi e la durezza della vita: una polmonite, presa per una sosta di troppo all’aria notturna su un balcone romantico, in tre giorni poteva portarti alla tomba, così come un parto aspettato con gioia spesso si risolveva in tragedia.
Ma oggi, questo misterioso virus cinese fa rivivere in tutti noi, accomodati in una vita tranquilla e un poco noiosa, propensi ad abbracciare e sbaciucchiare distrattamente anche occasionali conoscenze (e che non affrontiamo guerre da oltre settant’anni...), incubi ancestrali che assumono sembianze ossessive di contagio e di morte. Ma anche – direi – di subdola eccitazione: ci sentiamo gli eroi di una battaglia che ci riguarda personalmente, perché siamo tutti in prima linea. Accumuliamo provviste, leggiamo i bollettini di guerra, contiamo i morti e i sopravvissuti: ma, in fondo in fondo, ci sentiamo più vitali, più forti, più vivi.