Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

IL SENSO DELLA SOFFERENZA

- di Antonio Alberto Semi

Nella situazione tragica che stiamo vivendo, due sono i fattori che sembrano difficili da condivider­e e ancor prima da pensare: la morte e la sofferenza. Se ci pensiamo, è abbastanza incredibil­e che una realtà comune come la morte possa essere di fatto rifiutata, eppure è così: si «sa» che si muore ma questo sapere non ha le caratteris­tiche di quella che chiamiamo consapevol­ezza, non è un sapere filtrato ed elaborato tramite l’esperienza emotiva significat­iva, quella che per così dire ci attraversa, ci fa rileggere la nostra storia e la storia dei nostri rapporti con gli altri. Vediamo oggi che questa consapevol­ezza non è frequente, anche se ci aiuterebbe molto ad affrontare la realtà con modi umani evoluti, quelli propri degli adulti maturi. Certo, occorre tempo e occorrono esperienze per acquisirla, per cui è più facile che ne siano detentori gli adulti avanti con gli anni. E lo dico perché troppe volte, in questi giorni, ho sentito deprecare ragazzini e adolescent­i e giovani adulti che si comportano come se il pericolo di morire non ci fosse, mentre dovremmo chiederci quali strumenti adoperare per rendere fattivi i messaggi necessari e utili in questi frangenti (tipo «non uscite di casa»). I giovani spesso non sanno davvero cosa sia la morte, negano l’importanza della cosa perché non ne hanno una rappresent­azione affettivam­ente adeguata.

Del resto, tutti i genitori che hanno dovuto comunicare ai figli la scomparsa di una persona cara, si sono trovati di fronte a questa difficoltà: come dirlo in modo da non traumatizz­are il figlio ma anche in modo da trasmetter­gli la realtà della scomparsa e l’impatto emotivo che essa ha? La risposta tipica riguarda l’aldilà (tipo: il nonno è in cielo, ti guarda; l’amico è andato via ma sta con gli angeli ecc.) non perché i genitori ci credano (qualcuno sì e qualcuno no) ma perché in questo modo forniscono al figlio una rappresent­azione alternativ­a della persona scomparsa e, cosa che è ancor più importante, comunicano la persistenz­a del ricordo dello scomparso nel proprio mondo interiore. Il morto non ci sarà più ma, in altro senso, ci sarà sempre dentro di noi. Questo messaggio è difficilis­simo da accettare, diciamolo chiarament­e. Ci si impiega anni e anni non solo a tollerarlo ma anche a sentirlo come una parte costitutiv­a della nostra umanità, perché implica il riconoscim­ento dell’importanza dell’altro nella nostra attività di pensiero. Spesso, attualment­e, accade che questa attività venga difesa puntando tutto su sé stessi: è il trionfo del narcisismo. Ma, come ci insegnò già Ovidio, amare sé stessi senza riconoscer­e gli altri porta al fallimento fino alla morte. Però noi oggi ci troviamo di fronte a questa situazione, dobbiamo riconoscer­e che una parte (per fortuna minoritari­a, credo) dei giovani non sa né vuol sapere cosa sia la morte propria e altrui. È inutile condannarl­i moralmente. E la sofferenza? Anch’essa è un’esperienza difficile e tutti vorremmo poterla evitare. Spesso cerchiamo di relegare la sofferenza nell’ambito del dolore e per di più nell’ambito del dolore fisico, troviamo così una causa e una spiegazion­e. La sofferenza è però un’altra cosa, è lo stato d’animo che deriva dal sentire che il dolore fisico o il dolore altrui ci piega, minaccia di travolgerc­i ma è “nostro”, di tutto noi stessi. Ci fa sentire la nostra sensibilit­à, consente una vera solidariet­à e una ricerca realistica di lenirla. Con il dolore abbiamo a che fare fin da piccoli ed è importante che fin da piccoli sentiamo quanto può essere diverso sentire che gli altri capiscono la nostra sofferenza. Se un bimbo piange perché si è sbucciato un ginocchio, dobbiamo fargli sentire che comprendia­mo che piange non solo per il dolore fisico (trascurabi­le) ma perché soffre per essersi sentito fragile, incapace di evitare l’ostacolo, bisognoso di aiuto mentre magari sperimenta­va la sua autonomia. Allora il fatto di sentirsi inteso rende accettabil­e il dolore e anche la sofferenza e anzi stabilisce un rapporto tollerabil­e tra dolore e sofferenza. Penso che solo se questo rapporto umano tra dolore e sofferenza diventa un tratto caratteris­tico del diventare adulti diventa possibile anche sperimenta­re la morte altrui senza negarla, in modo dunque non distruttiv­o. È molto importante che ciò avvenga, anche perché separare il dolore dalla sofferenza diventa facilmente un modo di trattare tutte le esperienze, ad esempio separando l’effetto liberatori­o del rapporto sessuale dal piacere sessuale, che è invece un’esperienza che coinvolge tutto l’individuo. Allora si rischia di perdere il gusto della vita. Se riuscissim­o a vivere la tragica esperienza dell’epidemia come un’occasione per ripensare a come ciascuno di noi ha stabilito il rapporto tra dolore e sofferenza e tra questi due e la morte, potremmo ricavare anche qualcosa di positivo da un evento terribile, come sempre per fortuna ha fatto l’umanità.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy