Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
ACCADDE DOMANI
IGrandi Saggi a Venezia ritardarono un po’ la dichiarazione di emergenza. All’inizio si parlava solo di «febbri perniciose», di «piccole epidemie». E quegli sparuti casi al paesello non potevano bastare a fermare commerci, tasse e fortune di una terra abituata a comandare. Chiudere la porta al mondo degli affari avrebbe compromesso gli equilibri socio economici e la gran parte della popolazione la pensava come i Saggi.
APadova poi sospesero le fiere e i mercati e chiusero scuole, tribunali e negozi con colpevole ritardo preoccupati delle conseguenze dei provvedimenti più che dell’infezione stessa. Finimmo per affrontare la verità quando questa era ormai sotto gli occhi di tutti.
A pensarci bene al paesello la paura aveva preso il sopravvento già all’inizio. E lì come in alcune città dove i casi erano stati frequenti, a Bassano per esempio, a Treviso, Cittadella e anche Trento, si parlava già di epidemia e i Comuni avevano fatto degli esperimenti di isolamento. Organizzarono i primi posti di blocco per fermare i positivi. Qualcuno riusciva a evitarli passando per le campagne, qualcun altro aveva un lasciapassare, altri ancora riuscivano a dimostrare di essere negativi e ad entrare in città evitando la denuncia. Fu certamente per ovviare all’eccessiva permeabilità dei cordoni sanitari che i Grandi Saggi fissarono multe salatissime e inasprirono i controlli. Bisognava sempre dichiarare per iscritto la località di partenza e il posto dove si era diretti. Chiunque portava i segni della malattia finiva in quarantena. Ebbene sì, il mondo aveva fatto passi da gigante ma applicava ancora come rimedio la teoria ippocratica dei «giorni critici» secondo cui ogni malattia doveva necessariamente manifestare i suoi sintomi entro quaranta giorni e se durava di più voleva dire che era una malattia cronica e non epidemica.
La quarantena si applicava al malato e a tutta la sua famiglia. A volte ci finiva un intero paese ma ormai i focolai apparivano numerosi. Chi l’avesse portata non si capiva. I più dicevano uno straniero passato perla Lombardia dove già infuriava la tempesta. Altri provvedimenti, tra le centinaia che con il deteriorarsi della situazione venivano emanati, riguardavano le regole igieniche e la pulizia delle strade. Le vittime non erano più occasionali e il problema dilagava oltre confine. Morivano pure i medici che sperimentavano nuovi farmaci ma in realtà poco potevano di fronte ad una malattia di cui non si conosceva la natura . La penuria di medici determinò l’arrivo a Venezia di sanitari stranieri poco preparati e consentì a figure minori di svolgere funzioni ben al di sopra delle loro capacità. Non c’era alternativa.
Le vittime si moltiplicarono. Fu un anno tragico. Poi l’epidemia pian piano sembrò perdere forza, fermare la sua virulenza.
Dalle quarantene e dagli isolamenti uscì un mondo nuovo. È opinione condivisa che il flagello abbia avviato un processo di maturazione sociale e aperto un sentimento di solidarietà che pareva scomparso.
Venne emanato l’ennesimo decreto, un decreto di liberazione. Pur stremate dagli effetti devastanti della crisi, le Venezie ripartirono.
Era il 1630.
Era l’anno della grande peste.
Le cronache di allora, queste che vi abbiamo riassunto poco sopra, parlavano di milioni di defunti. Non migliaia. Ebbene, l’umanità è riuscita a ripartire. La storia ci incoraggia a pensare che ce la faremo ancora una volta, che in fondo non ce lo ricordiamo ma c’è chi l’ha già visto questo mondo spettrale. Un popolo ne è uscito con le ossa rotte ma in fondo più forte. Più unito. Coraggio, vogliamoci bene.