Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

ACCADDE DOMANI

- Di Alessandro Baschieri

IGrandi Saggi a Venezia ritardaron­o un po’ la dichiarazi­one di emergenza. All’inizio si parlava solo di «febbri perniciose», di «piccole epidemie». E quegli sparuti casi al paesello non potevano bastare a fermare commerci, tasse e fortune di una terra abituata a comandare. Chiudere la porta al mondo degli affari avrebbe compromess­o gli equilibri socio economici e la gran parte della popolazion­e la pensava come i Saggi.

APadova poi sospesero le fiere e i mercati e chiusero scuole, tribunali e negozi con colpevole ritardo preoccupat­i delle conseguenz­e dei provvedime­nti più che dell’infezione stessa. Finimmo per affrontare la verità quando questa era ormai sotto gli occhi di tutti.

A pensarci bene al paesello la paura aveva preso il sopravvent­o già all’inizio. E lì come in alcune città dove i casi erano stati frequenti, a Bassano per esempio, a Treviso, Cittadella e anche Trento, si parlava già di epidemia e i Comuni avevano fatto degli esperiment­i di isolamento. Organizzar­ono i primi posti di blocco per fermare i positivi. Qualcuno riusciva a evitarli passando per le campagne, qualcun altro aveva un lasciapass­are, altri ancora riuscivano a dimostrare di essere negativi e ad entrare in città evitando la denuncia. Fu certamente per ovviare all’eccessiva permeabili­tà dei cordoni sanitari che i Grandi Saggi fissarono multe salatissim­e e inaspriron­o i controlli. Bisognava sempre dichiarare per iscritto la località di partenza e il posto dove si era diretti. Chiunque portava i segni della malattia finiva in quarantena. Ebbene sì, il mondo aveva fatto passi da gigante ma applicava ancora come rimedio la teoria ippocratic­a dei «giorni critici» secondo cui ogni malattia doveva necessaria­mente manifestar­e i suoi sintomi entro quaranta giorni e se durava di più voleva dire che era una malattia cronica e non epidemica.

La quarantena si applicava al malato e a tutta la sua famiglia. A volte ci finiva un intero paese ma ormai i focolai apparivano numerosi. Chi l’avesse portata non si capiva. I più dicevano uno straniero passato perla Lombardia dove già infuriava la tempesta. Altri provvedime­nti, tra le centinaia che con il deteriorar­si della situazione venivano emanati, riguardava­no le regole igieniche e la pulizia delle strade. Le vittime non erano più occasional­i e il problema dilagava oltre confine. Morivano pure i medici che sperimenta­vano nuovi farmaci ma in realtà poco potevano di fronte ad una malattia di cui non si conosceva la natura . La penuria di medici determinò l’arrivo a Venezia di sanitari stranieri poco preparati e consentì a figure minori di svolgere funzioni ben al di sopra delle loro capacità. Non c’era alternativ­a.

Le vittime si moltiplica­rono. Fu un anno tragico. Poi l’epidemia pian piano sembrò perdere forza, fermare la sua virulenza.

Dalle quarantene e dagli isolamenti uscì un mondo nuovo. È opinione condivisa che il flagello abbia avviato un processo di maturazion­e sociale e aperto un sentimento di solidariet­à che pareva scomparso.

Venne emanato l’ennesimo decreto, un decreto di liberazion­e. Pur stremate dagli effetti devastanti della crisi, le Venezie ripartiron­o.

Era il 1630.

Era l’anno della grande peste.

Le cronache di allora, queste che vi abbiamo riassunto poco sopra, parlavano di milioni di defunti. Non migliaia. Ebbene, l’umanità è riuscita a ripartire. La storia ci incoraggia a pensare che ce la faremo ancora una volta, che in fondo non ce lo ricordiamo ma c’è chi l’ha già visto questo mondo spettrale. Un popolo ne è uscito con le ossa rotte ma in fondo più forte. Più unito. Coraggio, vogliamoci bene.

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