Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
IL TEMPO DELLO SMART WORKING
Tenere le distanze è l’indicazione cui attenersi per tentare di arrestare la diffusione del Covid-19. In luoghi di lavoro, spazi pubblici e privati, supermercati e così via, il social distancing è diventato un imperativo che in alcuni casi ha assunto la forma dello smart working. L’hashtag «io resto a casa» diventa «io resto a casa a lavorare». Le organizzazioni che si sono dimostrate in grado di utilizzarlo in modo efficace, e non come rimedio contingente a problemi di continuità operativa e di sicurezza, sono quelle che già avevano predisposto piani di attivazione di smart working. Che non significa fare da remoto le stesse cose fatte in presenza. Significa cambiare radicalmente lo stile di direzione, l’organizzazione del lavoro e il ruolo delle tecnologie.
Equesto vale non solo nei servizi ma anche nella produzione automatizzata che, a certe condizioni, si presta al social distancing sia in prossimità sia in remoto. C’è chi sta ipotizzando che le misure messe in atto ora possano dare indicazioni per soluzioni più strutturali da proiettare oltre questa crisi. Il che è plausibile perché è dalle situazioni estreme che si generano i grandi cambiamenti. Ma c’è allora da chiedersi se questo possa cambiare stabilmente il valore da attribuire alla social proximity. Un film del 1995, «Hello Denise» di Hal Salwen, intreccia le storie di cinque ragazzi newyorkesi le cui interazioni avvengono esclusivamente a distanza. Lavorano, amano, dialogano, soffrono, gioiscono per via telematica senza che vi sia mai un contatto diretto. Gli incontri che tentano di organizzare falliscono per varie ragioni ma di fatto per la loro paura di una contiguità fisica. Allora le connessioni telematiche erano piuttosto lente ma sufficienti per trasformare i loro comportamenti e le loro capacità relazionali: ciascuno blindato in casa al riparo dai rischi della prossimità. È un film profetico che mette in guardia dai possibili esiti dell’assenza di interazioni dirette e che potrebbe servire per riflettere anche sullo smart working del futuro. È singolare che la versione italiana del film, ormai introvabile, sia stata sponsorizzata da Telecom che forse non aveva capito bene o invece aveva capito tutto e scommetteva alla lunga sull’esplosione del traffico telefonico. In questa prima settimana di social distancing, in Borsa le sue azioni se la sono cavata meglio di altre. Gli studiosi di organizzazione hanno dedicato importanti analisi al tema della distanza nelle diverse culture: la distanza dal potere e la distanza tra le persone. È nata una disciplina, la prossemica, che studia appunto il ruolo della distanza nelle relazioni interpersonali e che ora potrebbe aiutare a individuare costi e benefici della prossimità e della distanza. Lo smart working interviene in un’epoca in cui è molto diffuso l’open space, una soluzione logistica che in teoria assicura il massimo grado di prossimità. Le aziende, sempre più numerose, che lo hanno adottato lo apprezzano perché favorisce le interazioni individuali e di gruppo anche se si trovano a volte a fronteggiare un rigetto da parte delle persone che percepiscono l’eccesso di prossimità come particolarmente stressante. E oggi anche rischioso per la salute. Smart working e open space, passata questa crisi, potrebbero se alternati convivere e completarsi. Ci sono capi che non amano lo smart working perché temono di perdere il controllo sui collaboratori, per contro ci sono collaboratori che lo rifiutano perché temono di perdere il controllo sul capo. Qui ritornano utili le analisi sulla distanza del potere: la prossimità con le posizioni gerarchiche superiori è un indicatore dell’importanza del ruolo svolto nell’organizzazione oltre che una garanzia della continuità del rapporto. Quanto più il rapporto si alimenta di conoscenze tacite in continuo divenire grazie alla prossimità, tanto più è difficile sostituire chi le detiene. Quando invece l’interazione si basa su conoscenze standardizzate, il social distancing realizzato dallo smart working viene percepito come premessa per soluzioni automatizzate o esterne. Questo spiegherebbe perché, come ha documentato Milena Gabanelli lunedì sul Corriere, piace a molti ma non a tutti.