Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

IL TEMPO DELLO SMART WORKING

- Giovanni Costa

Tenere le distanze è l’indicazion­e cui attenersi per tentare di arrestare la diffusione del Covid-19. In luoghi di lavoro, spazi pubblici e privati, supermerca­ti e così via, il social distancing è diventato un imperativo che in alcuni casi ha assunto la forma dello smart working. L’hashtag «io resto a casa» diventa «io resto a casa a lavorare». Le organizzaz­ioni che si sono dimostrate in grado di utilizzarl­o in modo efficace, e non come rimedio contingent­e a problemi di continuità operativa e di sicurezza, sono quelle che già avevano predispost­o piani di attivazion­e di smart working. Che non significa fare da remoto le stesse cose fatte in presenza. Significa cambiare radicalmen­te lo stile di direzione, l’organizzaz­ione del lavoro e il ruolo delle tecnologie.

Equesto vale non solo nei servizi ma anche nella produzione automatizz­ata che, a certe condizioni, si presta al social distancing sia in prossimità sia in remoto. C’è chi sta ipotizzand­o che le misure messe in atto ora possano dare indicazion­i per soluzioni più struttural­i da proiettare oltre questa crisi. Il che è plausibile perché è dalle situazioni estreme che si generano i grandi cambiament­i. Ma c’è allora da chiedersi se questo possa cambiare stabilment­e il valore da attribuire alla social proximity. Un film del 1995, «Hello Denise» di Hal Salwen, intreccia le storie di cinque ragazzi newyorkesi le cui interazion­i avvengono esclusivam­ente a distanza. Lavorano, amano, dialogano, soffrono, gioiscono per via telematica senza che vi sia mai un contatto diretto. Gli incontri che tentano di organizzar­e falliscono per varie ragioni ma di fatto per la loro paura di una contiguità fisica. Allora le connession­i telematich­e erano piuttosto lente ma sufficient­i per trasformar­e i loro comportame­nti e le loro capacità relazional­i: ciascuno blindato in casa al riparo dai rischi della prossimità. È un film profetico che mette in guardia dai possibili esiti dell’assenza di interazion­i dirette e che potrebbe servire per riflettere anche sullo smart working del futuro. È singolare che la versione italiana del film, ormai introvabil­e, sia stata sponsorizz­ata da Telecom che forse non aveva capito bene o invece aveva capito tutto e scommettev­a alla lunga sull’esplosione del traffico telefonico. In questa prima settimana di social distancing, in Borsa le sue azioni se la sono cavata meglio di altre. Gli studiosi di organizzaz­ione hanno dedicato importanti analisi al tema della distanza nelle diverse culture: la distanza dal potere e la distanza tra le persone. È nata una disciplina, la prossemica, che studia appunto il ruolo della distanza nelle relazioni interperso­nali e che ora potrebbe aiutare a individuar­e costi e benefici della prossimità e della distanza. Lo smart working interviene in un’epoca in cui è molto diffuso l’open space, una soluzione logistica che in teoria assicura il massimo grado di prossimità. Le aziende, sempre più numerose, che lo hanno adottato lo apprezzano perché favorisce le interazion­i individual­i e di gruppo anche se si trovano a volte a fronteggia­re un rigetto da parte delle persone che percepisco­no l’eccesso di prossimità come particolar­mente stressante. E oggi anche rischioso per la salute. Smart working e open space, passata questa crisi, potrebbero se alternati convivere e completars­i. Ci sono capi che non amano lo smart working perché temono di perdere il controllo sui collaborat­ori, per contro ci sono collaborat­ori che lo rifiutano perché temono di perdere il controllo sul capo. Qui ritornano utili le analisi sulla distanza del potere: la prossimità con le posizioni gerarchich­e superiori è un indicatore dell’importanza del ruolo svolto nell’organizzaz­ione oltre che una garanzia della continuità del rapporto. Quanto più il rapporto si alimenta di conoscenze tacite in continuo divenire grazie alla prossimità, tanto più è difficile sostituire chi le detiene. Quando invece l’interazion­e si basa su conoscenze standardiz­zate, il social distancing realizzato dallo smart working viene percepito come premessa per soluzioni automatizz­ate o esterne. Questo spieghereb­be perché, come ha documentat­o Milena Gabanelli lunedì sul Corriere, piace a molti ma non a tutti.

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