Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

«Dal test al ricovero vi racconto il coronaviru­s»

- Roberto Brumat

«E’ cominciato tutto domenica 23 febbraio, con una febbre a 37,3. Così l’indomani non sono andato in ufficio».

A raccontare il suo coronaviru­s è A.F., 61 anni, dirigente di un’azienda di Padova, uno dei primi padovani contagiati. E’ in quarantena nella sua casa al quartiere Arcella, dopo 15 giorni di ricovero agli Infettivi in due diversi ospedali della provincia. Una febbre apparentem­ente normale, da non destare particolar­e apprension­e.

«L’apprension­e è arrivata mercoledì 26 quando ho ricevuto la telefonata dell’Ufficio Igiene di Padova: mi avvisavano che ero entrato in contatto con una persona positiva al Covid19. Non mi hanno detto chi, ma mi hanno avvertito che avrebbero inviato subito un’ambulanza per prelevarmi e sottopormi al tampone al reparto Infettivi. Mi hanno chiesto chi avessi visto nelle ultime ore e hanno messo in quarantena i sei amici che avevo avuto a cena sabato: nessuno fortunatam­ente positivo».

Dev’essere stato un trauma.

«Beh, vedere quelli del 118 aspettarmi sotto casa tutti corazzati… Due giorni dopo mi hanno chiamato per dirmi che ero risultato positivo. In cinque nella mia ditta, ho saputo poi, di cui quattro ospetutto dalizzati. Intanto la temperatur­a rimaneva bassa, ma il lunedì seguente è salita a 38,7; la tachipirin­a a mille la faceva scendere di poco e dopo tre ore tornava alta. Martedì sono arrivate le convulsion­i e quello mi ha fatto davvero paura, così alle 16 ho chiamato l’Ufficio Igiene e ho preparato lo zainetto».

Ricovero immediato? «Tre ore dopo, alle 19 del 3 marzo, il 118 mi ha lasciato da solo agli Infettivi di Padova dove ho trovato un’assistenza meraviglio­sa. In camera da due nel reparto dell’ottimo dottor Andrea Sattin sono stato seguito da personale attento, simpatico e molto umano.

Nonostante i continui controlli, al terzo giorno di ospedale però mi sono sentito perso quando ho avuto difficoltà a respirare. Sangue poco ossigenato, così mi hanno attaccato all’ossigeno, sempre vigile e spesso seduto per dilatare i polmoni. Potevo alzarmi per andare in bagno e per mangiare, ma lentamente per non stancarmi».

Quanto è durato l’intubament­o?

«Non ero intubato, avevo la maschera di Venturi, più leggera, per una settimana, la più critica. Poi una volta migliorato mi hanno trasferito all’ospedale di Schiavonia: al primo piano e dopo 7 giorni al secondo, sempre in stanza doppia. Anche lì assistenza strepitosa. In entrambe gli ospedali tutti sono stati fantastici: dai medici agli infermieri, a quelli che fanno le pulizie: per noi che eravamo in balia di un destino incerto è stato importanti­ssimo»

«Ma in quello stato particolar­e ci si rende conto di cosa succede attorno? Voleva sapere com’era fuori?

«La percezione della gravità è maturata poco per volta, anche se avevo sempre con me cellulare e ipad. Seguire l’evoluzione esterna del virus mi spaventava sì e no perché quando ti capita una cosa simile sei concentrat­o quasi del su di te; e poi mi rendevo conto che c’era chi stava peggio. Oltretutto i sanitari non parlavano di cosa accadeva fuori, ci spiegavano la nostra personale situazione trattenend­osi a lungo a parlare. Erano così attenti che perfino si scusavano per i piccoli inevitabil­i disservizi».

E finalmente le dimissioni.

«Il momento più bello, il 18 marzo, quando è venuta a prendermi mia moglie. Ora a casa seguo di più la vicenda, ma non troppo: cerco di guarire. Giro per casa con la mascherina come mi hanno consigliat­o i medici perché in quarantena siamo in due e non è ancora finita. Sono calato otto chili ma sono stato fortunato»

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