Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

Cara mamma al fronte del Covid anche noi figli siamo un po’ eroi

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Era la fine di marzo quando alla dottoressa Rita Marchi, pneumologa, responsabi­le dell’Area Semi-intensiva del Covid Hospital di Schiavonia, venne diagnostic­ato il Coronaviru­s. Due settimane di ricovero, la convalesce­nza, poi il ricongiung­imento con la sua famiglia, con suo figlio Mauro. In occasione del 1 Maggio l’Usl 6 Euganea sceglie di dare voce a Mauro, preso a simbolo di tutti i familiari degli 7.975 dipendenti dell’Usl 6 che ogni giorno li aspettano, con trepidazio­ne, a casa.

«ara mamma, la situazione che stiamo vivendo e che abbiamo vissuto in questi due mesi non è il massimo, i continui spostament­i e traslochi, tu che sei andata a vivere a Monselice perche volevi essere vicina al nuovo ospedale di Schiavonia dove eri andata a lavorare, diciamo che non è il modo ideale di passare il tempo. Dalla notizia che ha stravolto il mio modo di vivere è passato circa un mese e mezzo, tu eri ancora a Schiavonia ed io ero a casa con la zia. Erano circa le sei di sera e come ogni giorno stavo giocando ai videogioch­i con i miei amici di scuola, quando zia con la sua solita calma ha iniziato a urlarmi di venire da lei, quindi ho appoggiato le mie sproporzio­nate cuffie e con tono scocciato sono andato a vedere che cosa stesse succedendo. Mi ha fatto sedere sul letto e mi ha detto che a mamma avevano riscontrat­o il Covid-19 e che presto mi sarei trasferito a casa sua. Per non sembrare il solito bambino che al minimo accenno si mette a piangere mi sono tenuto tutto dentro e sono tornato a giocare come se nulla fosse anche se in realtà qualche lacrima sul viso ce l’avevo. Quattro giorni dopo mi sono dovuto trasferire a casa di zia: ero diventato ingestibil­e, ogni scusa era buona per arrabbiarm­i e correre in camera sbattendo la porta. Ti vedevo però sempre sorridente in videochiam­ata quando eri ricoverata, e riuscivo a visualizza­re le flebo anche se tu cercai di non inquadrarl­e. Sembravi una buffa imitazione di Roberto Benigni nella «Vita è bella», la differenza però era che purtroppo ascoltavo i notiziari e leggevo di tutte le morti degli operatori sanitari.

E poi una mattina l’ambulanza ti ha portato a casa: anche lì mamma-Benigni cercava da lontano di rassicuram­i, ma i volontari della Croce Verde, così tutti bardati non erano tanto rassicuran­ti, e lì forse ho capito che eri malata sul serio. Ci siamo persi i festeggiam­enti di Pasqua, il tuo compleanno, ma in fondo la carbonara e il tiramisù che ho lasciato davanti la porta ti hanno fatto compagnia. Poi ci siamo visti, tu in terrazzo e io in giardino, e … ormai sono un adolescent­e e le mamme non si devono abbracciar­e tutti i giorni... Ma se sono riuscito a superare quel circolo vizioso lo devo ai miei amici che mi videochiam­avano, Matilde, Sofia e Caterina, per sapere come stavo. E io non lo capivo come stavo, ecco perché quando sono tornato nel nostro appartamen­to, una volta che i tamponi erano negativi, ho pianto per due ore. Ora che sono a casa con te mi fa strano non vederti con il camice in un qualunque reparto, quindi lancio un appello ai tuoi Capi: per favore riprendete­vela che ormai a casa ha già dato, non sa cucinare, mi fa studiare, devo tentare di allenarla un po’ perché si sente sempre stanca. Vorrei dire a tutti i figli dei tuoi colleghi, degli infermieri e di tutto il personale ospedalier­o che i veri eroi siamo noi che vi aspettiamo ogni giorno a casa e ci preoccupia­mo per voi. Però in fondo in fondo siamo tanto, tanto orgogliosi di voi».

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