Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
Le strategie vincenti il «modello Veneto» e la popolarità di Zaia
Chi gli vuole bene, ne è arci-convinto: il merito è tutto suo, senza «Luca» qua sarebbe stato un macello. I complimenti si sprecano, non soltanto entro i confini del Veneto e del centrodestra, e la vetta più alta è stata probabilmente raggiunta dalla canzone circolata sui social in cui un aedo compone rime affettuose («Col tuo fare quasi sempre garbato-ma ci piaci anche incazzato!») sulle note di «Sono un italiano» di Toto Cutugno. Chi gli vuole male, invece, estremizza in senso opposto: Zaia o non Zaia, il Veneto sarebbe uscito in ogni caso con le ossa un po’ meno rotte del resto d’Italia, perché il merito del contenimento del virus va ascritto al sistema sanitario, ai medici di base e ospedalieri, ai luminari universitari e i ricercatori, a infermieri, tecnici e operatori, e insomma, se il coronavirus è stato (quasi) sconfitto non solo non lo si deve a Zaia ma addirittura nonostante Zaia, come anche ieri batteva il Pd. Ora, che si voglia aderire all’una o all’altra tesi (e la verità probabilmente sta nel mezzo come al solito, per cui dietro a un «grande presidente» c’è sempre una «grande squadra») è un dato di fatto che mai come oggi il Veneto, già abituato a sentirsi elogiato come un’eccellenza in molti campi e da molto tempo, sia sulla bocca di tutti come il modello da seguire nella battaglia contro il Covid-19. E il suo presidente, già abituato dai sondaggi e dalle urne ad essere considerato un vincente, una vera e propria superstar. L’ultimo a dirlo, in ordine di tempo, il Financial Times che lo incorona come «l’eroe della crisi italiana del
coronavirus» salvo poi aggiungere sibillino: «che oscura Salvini». Lui, come sempre, taglia corto: «Io premier? È un incubo» e da navigatore esperto della politica postilla: «Il fatto che ci siano oppositori così importanti (ultimo Massimo Cacciari, ndr.) che dicono che sono bravo dimostra che l’obiettivo non è lodare me, ma criticare qualcun altro». E ribadisce una volta di più: «Non ho altre mire, il mio segretario è Salvini. Punto». Ma i sondaggi comunque agitano le acque nella Lega e non potrebbe essere altrimenti, visto che da Diamanti a D’Alimonte, tutti i politologi indicano Zaia come il politico più amato d’Italia, solo in qualche caso dietro al premier Giuseppe Conte.
Una visibilità, l’ha ammesso lui stesso, dovuta alla particolare congiuntura che gli ha permesso di dominare la scena, con una conferenza stampa live su Facebook seguita ogni giorno da ventimila persone, ma è pur vero che le conferenze stampa si devono saper fare, come dimostrano gli inciampi a Palazzo Chigi, e comunque «la presenza costante del governatore» è stata fondamentale, come ha detto al Gruppo Gedi Domenico Mantoan, plenipotenizario direttore dell’Area Sanità e Sociale della Regione, perché «ha assunto la piena responsabilità di scelte delicate, è stato una garanzia». Insomma, Zaia ci ha messo la faccia e non era facile, questo lo ammettono anche i suoi oppositori. Non era facile quando si è deciso di chiudere
Vo’ , misura che all’epoca sembrò ai più esagerata, quasi d’altri tempi, e invece si è rivelata giustissima, mai troppo rimpianta dai Comuni focolaio della Lombardia da dove invece l’epidemia è dilagata. E non era facile seguire l’intuizione del professor Andrea Crisanti sui «tamponi a tutti», quando altri luminari in quei giorni sicuramente più ascoltati dalle tivù e dal governo, l’Istituto superiore di sanità e l’Oms dicevano che era inutile, mappando da subito i positivi sul territorio e favorendone il tracciamento dei contatti. Sono stati i primi passi dell’ormai arcinoto «modello veneto delle tre T»: testare, tracciare, trattare. Anche qui, all’ultima T, con una specificità tutta nostra, pure diventata oggetto di studio nella comunità scientifica (la ricerca più importante è firmata da Francesca Russo, capo della Direzione Prevenzione): ospedalizzare solo i casi più gravi (tasso del 25% contro il 55% della Lombardia, dove il virus ha invaso le corsie) e usare «in modo parsimonioso» le rianimazioni; dedicare agli infetti ospedali ad hoc, i «Covid Hospital»; isolare a casa i soggetti asintomatici o con sintomi lievi, anche se questo ha destato malumori tra i pazienti, una scelta possibile solo grazie alla solida integrazione tra la medicina territoriale, ancora diffusa e radicata, e quella ospedaliera. Alcune misure, come la riapertura di cinque vecchi ospedali dismessi, fortunatamente si sono rivelate non necessarie ed anche se ci sarà di che riflettere su certi errori, come quelli all’origine dell’alto numero di morti nelle case di riposo, questi due mesi appaiono col senno di poi costellati più di successi che di insuccessi. Ultimo, grazie al lungo percorso avviato dal Veneto nella digitalizzazione e l’informatizzazione della sanità, l’attivazione del sistema di biosorveglianza che raccoglie in tempo reale i dati da laboratori e ospedali, li unisce ai dati anagrafici e ai luoghi frequentati, ricostruisce i contatti e così facendo crea una «mappa dell’epidemia» che consente alla Regione di giocare d’anticipo sul virus. È attivo dal 21 febbraio, sarà il cervello di controllo della Fase 2.