Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
BENVENUTA GENTILEZZA
Il barista gentile fino al cerimonioso, la commessa che ci accoglie come fossimo delfini di Francia, il ristoratore al quale il tavolo a cui stiamo seduti conferisce dignità regale. E tutto ciò lo capiamo: dopo due mesi e mezzo di penitenziagite il cliente è visto come manna mandata dal cielo. Meno ovvio in questo nostro uscire a riveder le stelle è constatare come il virus, ritirandosi, abbia lasciato sulla spiaggia delle nostre vite cose linde di cui avevamo perso consapevolezza.
Sarà un’impressione ma in strada le auto girano più lente e chi le guida è più pronto a frenare e a cedere il passo a chi attraversa, davanti ai negozi le code si formano in un ordine che la geometria non spiega, la gente sta in autogestione che neanche alle poste in un modo che i 60 mila disciplinatori civici di cui si parla, qualora entrassero in azione, sarebbero solo di inciampo; siamo più inclini al perdono e alla condivisione, la distanza ha allungato il tempo così che stando fermi all’ingresso dei negozi aspettiamo un cenno del commesso anche quando potremmo comodamente passare. «Prego, prima lei», «ma si figuri, passi pure». Alla cassa si sta rilassati, a guardia bassa, tanto che è persino bello starci, bello cedere il passo, affidarsi alla cortesia degli altri, pronti a ricambiarla, tutti più sicuri e protetti in un’inedita riscrittura del patto sociale. Roba in deroga, roba nordica, eccentrica al nostro Mediterraneo. Magari non dura ma le restrizioni sanitarie sembrano aver funzionato come un corso accelerato di educazione civica: in aula miracolosamente è calato il tasso di villania con effetti taumaturgici su di noi studenti-cittadini: pazienza e gentilezza infettano, sono contagiosi, sono la moneta comune che ognuno offre all’altro in riparazione del pericolo corso, l’indennizzo scambievole per la paura patita nei momenti più crudi del lockdown, balsamo e cura delle ferite. Tre mesi senza soldi costituiscono una sciagura - i prossimi promettono di esserlo anche di più - ma è pur vero che alcuni risultati della prova a cui siamo sottoposti sono apprezzabili: è dimostrato che le cose buone – non solo le cattive - tendono all’emulazione e talvolta prevalgono, persino quella che stiamo vivendo in virus exit può essere vista come una conferma della teoria della «finestra rotta» inventata dall’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani per ridurre la criminalità: «Se una finestra rimane per troppo tempo rotta - diceva il sindaco - qualcuno si sentirà autorizzato a rompere anche le altre»; nel nostro caso le finestre rotte sono quelle della superficialità, i nostri buchi del cinismo e dell’indifferenza. Dopo tre mesi passati a meditare, a sfrondare e a liberarci dai pesi morti dell’obbligo, vediamo meglio le nostre vite, i buchi lasciati dall’egoismo e i vetri sui quali trasciniamo i nostri affanni senza accorgerci degli altri. Precarietà, fragilità ci hanno spinti a rabberciare se non proprio a sostituire le finestre del nostro stare insieme. Viviamo in moviola, il ralenty disinnesca molte delle nostre urgenze con sorprendenti effetti antipiretici: cala la febbre da realizzazione, il «mimetismo sociale» - l’impulso che secondo René Girard ci fa piacere quello che piace agli altri – ha mollato un po’ la sua presa e noi non siamo più e solo quelli della «servitù volontaria». Che la pasta scuocia dunque, almeno per una volta, tanto nessuno ci ha ordinato di mangiarla. A che pro affrettare ciò che non ha più fretta? Nel grande rimando collettivo il posticipo fa da ninna nanna alle nostre intemperanze, una benefica dose di bromuro. «Prego, prima lei», «ma si figuri, passi pure», in attesa del peggio, nella speranza che anche lui faccia tardi.