Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
‘Ndrangheta, retata a Verona bufera all’Amia
E Tosi indagato per peculato. «Io estraneo»
VENEZIVAENEZIA Un blitz di Dda e polizia ieri ha smantellato una «locale» ‘ndranghetista da oltre vent’anni attiva a Verona e provincia, guidata dal boss Antonio Giardino e affiliata per vari intrecci di parentela con la sanguinosa e potente cosca Arena-Nicoscia. In carcere 17 persone, 6 ai domiciliari, sequestri per 15 milioni di euro. Terremoto ai vertici di Amia, la multiservizi veronese dei rifiuti. Indagato per peculato l’ex sindaco Flavio Tosi che replica: «Io estraneo alle accuse».
A tradire il «boss» è stata la salute. E l’intuizione degli inquirenti della Polizia di mettergli una cimice nella camera da letto dell’ospedale di Negrar, che per lunghi mesi ha registrato indefessa tutti gli ordini che Antonio Giardino, 51 anni, detto « Totareddu », dava ai sodali accorsi al suo capezzale. Da qui – e non da qualche «episodio di sangue», come sottolinea il gip di Venezia Barbara Lancieri nelle quasi 400 pagine di ordinanza di arresto – è nata la lunga inchiesta del pm della Dda lagunare Lucia D’Alessandro, che con l’aiuto delle squadre mobili di Verona e Venezia e poi anche del Servizio centrale operativo e dell’Anticrimine ieri mattina ha smantellato una «locale» ‘ ndranghetista da oltre vent’anni attiva a Verona e provincia, guidata proprio da Giardino e affiliata per vari intrecci di parentela con la sanguinosa e potente cosca Arena-Nicoscia, originaria della crotonese Isola di Capo Rizzuto. Il giudice ha ordinato il carcere per 17 persone (per 16 di loro l’accusa è di associazione a delinquere di stampo mafioso), gli arresti domiciliari per 6 e per 3 l’obbligo di firma, oltre a disporre sequestri di auto, immobili, terreni e quote societarie per un totale di 15 milioni di euro.
Spaccio, reati fiscali e altri reati finanziari, dalla ricettazione alle estorsioni, dal riciclaggio alla truffa, fino all’intestazione fittizia di società: l’obiettivo non è sparare, ma «ripulire» i soldi della droga con un giro vorticoso di false fatture e penetrare l’economia (edilizia e sale slot in primis) e anche la politica e dintorni. Nell’inchiesta su Eraclea l’accusa al clan casalese era di aver avuto a propria disposizione due sindaci. Qui invece i nomi più roboanti – anche se il gip ha escluso il concorso esterno mafioso contestato dal pm – sono quelli di Andrea Miglioranzi, ex presidente dell’Amia, la società municipalizzata dei rifiuti di Verona, e dell’attuale direttore Ennio Cozzolotto, entrambi ai domiciliari con l’accusa di turbativa d’asta e corruzione per aver favorito il gestore del centro studi «Enrico Fermi», Francesco Vallone (in carcere) affidandogli una serie di corsi di formazione in cambio di una mazzetta di 3 mila euro. Quello stesso Vallone che, peraltro, aiutava gli affiliati al clan ad accaparrarsi titoli di studio senza ovviamente aprire un libro. Da una piega dell’inchiesta spunta anche l’ex sindaco di Verona Flavio Tosi, indagato per peculato (del tutto scollegato dalla mafia) perché da alcune intercettazioni emergerebbe che l’Amia ha pagato per lui una fattura da 5 mila euro a un’agenzia di investigazioni: accuse che Tosi respinge e che la stessa gip ritiene vadano approfondite.
Il nucleo centrale del clan è proprio quello della famiglia Giardino: in carcere sono finiti anche la moglie di Antonio, Antonella Bova, il fratello Alfredo e il figlio Ruggero Giovanni (entrambi si occupavano dello spaccio di droga), ma il pm aveva chiesto l’arresto – negato dal gip – anche per Alfonso, Alfonso detto «Gaccia» – in famiglia le omonimie non mancano, anzi –, Antonio detto «il marocchino», Marco e Alfredo Antonio Giardino, e ce ne sono altri 4 con lo stesso cognome tra gli indagati, che sono in tutto 58. Tra i capi finiti in galera ci sono anche Michele Pugliese e Domenico Mercurio, crotonesi trapiantati all'ombra dell’Arena. Ma un ruolo se l’era ricavato anche Nicola Toffanin, 53enne rodigino originario di Occhiobello ma residente a Verona, che di Pugliese era il braccio destro e che si è occupato di tanti affari, tra cui i legami con i dirigenti di Amia, e ha trascinato con sé in cella anche la moglie Emilia Sdao.
Il «vicentino» (risiedeva di fatto a Piovene Rocchette) Antonio Lo Prete, ai domiciliari, insieme all’altro sodale Arcangelo Iedà, si occupava invece delle estorsioni: «So che hai tre figli » , dicevano a un’imprenditrice. «Se non paghi ti facciamo a fette», ne spaventano un altro.
Non mancano poi altri «colletti bianchi», anche se nessuno di loro è finito agli arresti: il pm D’Alessandro aveva accusato il bancario Luca Schimmenti (prima nella filiale veronese della PopVi, ora in quella vicentina di Lonigo di IntesaSanpaolo) e il commercialista Cesare Nicoletti, entrambi veronesi, di concorso esterno in associazione mafiosa per aver aiutato la «locale» in alcune operazioni sospette a livello societario e finanziario; così come l’immobiliarista veronese Massimo Marchiotto avrebbe trovato dei capannoni per loro. Il giudice ha però ritenuto che servano ulteriori indagini. In cella sono invece finiti altri tre veronesi che si sarebbe intestati fittiziamente alcuni beni e società, ovvero il 77enne Silvano Sartori (che pare stesse anche per fuggire all’estero), il 52enne Ezio Anselmi e il 35enne Stefano Vinerbini. Dalle carte emerge anche l’ipotesi di una «talpa» tra le forze dell’ordine, allorquando nel 2016 alcuni membri della cosca erano scappati all’esecuzione di un arresto disposto dal gip di Verona grazie a una «dritta» raccolta da Toffanin, il cui autore è ancora in via di identificazione.
«E’ l’ennesima dimostrazione che la criminalità organizzata non è solo infiltrata, ma strutturata in Veneto - ha spiegato il procuratore capo Bruno Cherchi - I contatti con Amia sono pericolosi e allarmanti: ribadisco che oltre alla nostra attività serve che la società civile e le istituzioni politiche, economiche e sociali facciano la loro parte». «Al Nord la ‘ndrangheta non ha un apparato militare forte, ma un reticolo di rapporti anche con la pubblica amministrazione - ha aggiunto Francesco Messina, che guida la Direzione centrale anticrimine - Purtroppo ci sono anche imprenditori che, pur risultando estorti e pagando per la protezione, hanno dei vantaggi e diventano quasi complici».