Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
Rigon e la prima seduta «Così nacque la Regione»
I ricordi di Luigi Rigon, anziano capogruppo Dc
VICENZA Classe 1923, Luigi Rigon, «Gino» per gli amici, fa un salto indietro di 50 anni e ricorda la sua elezione da democristiano che arrivava dalle Acli, nel primo consiglio regionale che il Veneto abbia mai eletto: «Tutti avevamo degli ideali e ci credevamo fortemente».
Alza la penna dalla lettera che sta scrivendo alle suore Cappuccine in Eritrea e fa un salto all’indietro di cinquant’anni, a quando venne eletto nel primissimo consiglio della Regione Veneto. Luigi Rigon, ma anche «Gino» per gli amici, è nella sua casa di Vicenza, è lucidissimo e non conta gli anni dietro le spalle, ma i giorni che mancano al suo prossimo compleanno: «Tra 15 giorni saranno 97». Era nel fiore della vita quando venne eletto, per la Dc, in quell’istituzione che nasceva dopo essere stata prevista dalla Costituzione più di vent’anni prima. «Arrivai penultimo, ma venni eletto. Essì che ero segretario provinciale della Democrazia
Cristiana, ma allora c’erano soprattutto giochi di corrente, e io ero fuori dalle correnti, non schierato. Ho preso i voti liberi, ecco».
Merito del suo passato appassionato: classe 1923, soldato in guerra, catturato l’8 settembre, prigioniero dei tedeschi in Slovenia, torna a casa nel ‘45, non si interessa di politica ma del sociale. Entra nelle Acli, l’associazione dei lavoratori cattolici, ne diventa «mezzo dirigente», poi da lì l’avvicinamento alla Dc, ha la carica di segretario amministrativo del comitato comunale di Vicenza, poi anche segretario politico. Sono i tempi della Dc mattatrice, nel Veneto poi e a Vicenza più che mai: la città berica si contendeva con Trento l’appellativo di «sacrestia d’Italia». Ma Rigon, pur cattolico, a suo modo è uno spirito libero. Quando entra a Ca’ Farsetti si sente un po’ gregario, il presidente è Tomelleri, uomo di prestigio e dalla personalità forte, uomo di potere e insieme acuto: è lui che designa Rigon come capogruppo dei democristiani in Consiglio, allora si diceva «presidente del gruppo Dc».
Lo farà per tre anni. Rigon ha la memoria limpida: «Avevamo la maggioranza assoluta, ma c’era il rispetto per tutti. C’erano le ideologie, certo, ma io ricordo con amicizia tutti i colleghi consiglieri, anche quelli di opposizione. Tutti avevamo degli ideali, e ci credevamo fortemente. Il decentramento, la funzione e l’utilità della Regione: davanti avevamo un ruolo e un lavoro tutto da inventare, e si lavorava sodo anche facendo battaglie ideologiche». E un concetto chiaro: «Eravamo tutti più preparati». Il primo grande risultato? «Sicuramente lo Statuto della
Regione, lì dentro c’erano cose fondamentali per la sua identità e il suo funzionamento. Soprattutto, tutti i gruppi erano uniti e compatti, tutti i consiglieri partecipavano alle commissioni, la macchina funzionava».
Luigi Rigon viene rieletto nel ‘75, ma dopo un po’ qualcosa si rompe: «E’ cambiato il clima, non mi ci ritrovavo. Ad un certo punto hanno deciso che nelle commissioni bastava un rappresentante per partito, così andava a finire che in tre-quattro decidevano per tutti». All’uomo venuto dal sociale questa prassi non va giù, espressione di potere più che di rappresentanza. E cosa fa? Si dimette, caso più unico che raro: abbandona lo scranno nel ‘76, lascia la tranquillità di un posto intoccabile, mentre il suo partito ha la maggioranza e può fare e disfare quel che vuole. Dice ancora adesso: «Mi hanno dato dei meriti che credo di non avere».
Il gran rifiuto lo fa tornare l’uomo che è sempre stato, quello del sociale. I suoi secondi cin
"
Tutti avevamo degli ideali e ci credevamo fortemente
quant’anni passano ad organizzare il mondo delle cooperative, a fare volontariato. Oggi, con lui, rimangono altri tre superstiti di quella prima legislatura: Giampaolo Bassetti (Pci, a Forlì), Giancarlo Gambaro, (Dc, Chioggia) e Benito Pavoni (Psi, Verona). Come non confrontare la Regione dei fondatori con quella attuale? «Non do giudizi. Dico solo che oggi la politica mi pare fatta da gente che passa il tempo a copiare e provocare. Noi avevamo degli ideali, magari diversi gli uni dagli altri, ma li avevamo. Oggi non so...». «E poi - aggiunge quasi di corsa - diceva già allora il vecchio senatore Giustino di Valmarana: tocca ai giovani, loro vedono il futuro, noi vecchi ragioniamo secondo i nostri schemi sedimentati, magari pensiamo più a noi».
Schemi sedimentati? L’antico, primigenio consigliere Rigon sorride: «Provo a capire il mondo di oggi, ho collegamenti con la società civile. Non foss’altro perché ho otto figli, 22 nipoti, 22 pronipoti...» E la sua pensione è molto sui generis: per 23 anni ha fatto il volontario per l’associazione «il Tucul» che opera in Eritrea. L’ultima volta è andato là nel 2014, a novant’anni suonati, e oggi scrive alla suore Cappuccine per rincuorarle, perché forse è tutto finito: il governo eritreo pretende un milione di dollari «a garanzia», e Rigon si indigna: «Vogliono soldi, che non abbiamo, per lasciarci lavorare gratis a loro favore. Va a finire che non ci andremo più. Mah».