Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
Terapie «subintensive» «La nostra Linea del Piave hanno evitato una strage»
VENEZIA «Le subintensive? La nostra linea del Piave». Frasi asciutte e concise che si lasciano scalfire solo dai ricordi di chi non ce l’ha fatta. Andrea Vianello è il direttore di Fisiopatologia respiratoria dell’azienda ospedaliera di Padova, membro del Cts, il comitato tecnico scientifico. Soprattutto, è l’«uomo delle terapie subintensive», quel cuscinetto che ha permesso all’intero sistema ospedaliero di fronteggiare l’ondata violenta del Covid fra febbraio, marzo e aprile.
Dottore, come nascono le subintensive?
«Ci siamo trovati di fronte a un gruppo consistente di pazienti troppo gravi per restare nel reparto di Malattie infettive. Normalmente si sarebbe provveduto al trasferimento in intensiva ma servivano letti per i casi più gravi. Così abbiamo usato tutto ciò che c’era a disposizione: materiali di protezione individuale, caschi apparecchi per la ventilazione non invasiva e abbiamo spinto all’estremo questo approccio. Il nostro reparto è stata la linea del Piave».
E i farmaci?
«Le subintensive sono state l’ambiente ideale per le terapie farmacologiche. Abbiamo fatto largo uso del farmaco anti artrite Tocilizumab ma anche dell’antivirale Remdesivir. Alla fine abbiamo usato anche il plasma su 5 pazienti, l’ultimo è stato dimesso pochi giorni fa. Il plasma nella pratica è risultato efficace. Abbiamo recuperato un centinaio di pazienti e in rianimazione sono arrivati solo in 5».
I pazienti dimessi sono seguiti ancora?
«Sì, c’è il follow up e a rivedere le cartelle...poteva essere una strage . Con il concorso di tutti l’abbiamo evitata, con il cambio del protocollo in corsa. A Padova abbiamo avuto 60 morti e 360 dimessi. Se non fossero stati fatti con tempestività gli aggiustamenti necessari non sarebbe andata così. Le terapie intensive che funzionano su protocolli e strumenti salva-vita non sono esenti, però, da complicazioni e dosare il livello di intensità delle cure a seconda del singolo caso ha fatto la differenza».
Il cambiamento ha riguardato anche l’organizzazione dei reparti?
«Sì, l’epidemia ci ha insegnato a dotare gli ospedali di sistemi flessibili. Siamo partiti con 4 letti e siamo arrivati a 22. Il dialogo fra reparti a questi livelli era inedito, ora è un modo di lavorare da applicare agli scenari futuri con una parola chiave: integrazione. C’è stato un continuo interscambio fra i reparti di Malattie infettive e Terapia intensive. Grazie a questo dialogo i pazienti hanno trovato la collocazione ideale per le loro cure».
Gli ospedali torneranno ad essere come prima o, a suo avviso, si è innescato un meccanismo di cambiamento da cui non si torna indietro?
«Necessariamente si cambierà, abbiamo imparato molto e molto in fretta. Francamente non eravamo forse preparati a un’onda d’urto di questo tipo. Ora sì. Ci auguriamo che per l’autunno non ci sia una recrudescenza o che almeno si sia arrivati al vaccino ma se così non fosse, è fondamentale mantenere percorsi distinti fra possibili positivi e malati di altri reparti. Lo stesso utilizzo dei dpi è ormai entrato a pieno regime, prima dell’emergenza non era così».
C’è poi un aspetto umano della sua esperienza...
«Si è discusso molto della solitudine fra chi si avviava alla fine e i suoi cari. La morte fa parte dell’esperienza dei medici ma i pochi deceduti nel nostro reparto hanno potuto ricevere le visite dei loro famigliari, debitamente protetti con tutti i sistemi di sicurezza, fino all’ultimo».