Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
«Riscatto Celadon, pagò Amenduni»
Lo dice il ragioniere arrestato per mafia a Trento. E Carlo: «Non sono sorpreso»
TRENTO A trent’anni dalla liberazione di Carlo Celadon, il vicentino rapito nl 1988 e liberato nel maggio del 1990, un presunto componente della banda di rapitori racconta che a dare alla famiglia del giovane il denaro per pagare il riscatto fu l’industriale Amenduni, patròn delle Acciaierie Valbruna. Emerge dalle intercettazione dell’inchiesta dell’Antimafia di Trento
TRENTO «Da quando bloccano i soldi sul conto, sono finiti i sequestri…». Sembra saperla lunga Angelo Zito. Diploma da ragioniere, pare lavorasse come corriere prima che la polizia lo arrestasse con l’accusa di aver fatto parte di una «locale» della ‘ndrangheta a Trento. Lui, 62 anni, originario di Santa Maria del Cedro (Cosenza), si era rifatto una vita a Pergine, nell’Alta Valsugana.
Ora è in carcere assieme ad altre venti persone: la Direzione distrettuale antimafia lo considera un uomo di fiducia di quella cosca trapiantata mille chilometri più nord della Calabria. È accusato di minacce ed estorsione con l’aggravante del metodo mafioso.
L’hanno pedinato e intercettato per mesi. Ed è così, indagando su quella ‘ndrina tra le Dolomiti, che i poliziotti l’hanno sorpreso a vantarsi di aver avuto un ruolo nel rapimento del vicentino Carlo Celadon, avvenuto nel 1988 quando aveva 19 anni e rimase nelle mani dei banditi per 831 giorni: fu il sequestro più lungo della storia italiana. Il reato, se davvero c’è stato, è ormai prescritto e Zito è un nome nuovo anche agli inquirenti che all’epoca lavorarono per la liberazione del ragazzo. Eppure «quello che sostiene è assolutamente credibile», ammette perfino il pm Antonino De Silvestri, che si occupò del caso. In fondo, buona parte dei responsabili non fu mai individuata.
Oggi, trent’anni dopo il rilascio dell’ostaggio, proprio quelle intercettazioni potrebbero riscrivere la storia del sequestro che forse più di ogni altro è impresso nella memoria collettiva del Veneto. Zito, infatti, sostiene che fu il «re dell’acciaio» Nicolò Amenduni a dare a Candido Celadon, il padre di Carlo, i soldi per pagare il riscatto. Versione tutta da verificare, ovvio. Ma il sostituto procuratore di Trento, Davide Ognibene, nella sua richiesta di arresto, non sembra avere dubbi: «Rievoca i fatti (del rapimento, ndr) arricchendoli di dettagli che solo una persona che vi abbia davvero preso parte potrebbe conoscere». E anche le informative della polizia sottolineano che quello di Zito «non è l’atteggiamento arrogante di chi deve “atteggiarsi” ma una precisa narrazione che comprende il tipo di mezzi utilizzati per il trasporto del sequestrato, le modalità di pagamento d’una parte del riscatto, il luogo di detenzione e altre particolarità che fanno ritenere queste confidenze genuine».
A due settimane dal blitz che ha smantellato la cosca trentina, il Corriere del Veneto ha potuto vedere le settemila pagine di documenti raccolte dalla Dda. Ed è da lì che emergono proprio le trascrizioni dei dialoghi sul sequestro Celadon. Si tratta di due intercettazioni effettuate con delle microspie piazzate nella Fiat Croma sulla quale Zito si spostava con Giuliano Callipari, 51 anni, pure lui arrestato.
Nella prima, effettuata alle 6.21 del 13 ottobre 2018, spiega che la stagione dei sequestri tramontò per la decisione, da parte dello Stato, di bloccare i beni alle famiglie per impedire che pagassero i riscatti. E da quel momento, si lascia andare ai ricordi. Sostiene che «nel sequestro Celadon (…) in una Peugeot, sotto il sedile, sono andato io a prenderlo (pare intendere il denaro, ndr) ». Racconta che furono versate diverse tranche. La prima «l’hanno pagata lì, gli hanno lasciato la valigetta in una scarpata» a poca distanza dall’autostrada «venendo da Reggio, prima di arrivare allo svincolo di Pizzo, c’è un ovile con le pecore». In effetti, proprio in un ovile a Pizzo Calabro, Celadon fu tenuto prigioniero per mesi e sempre nei dintorni furono consegnati i soldi. Cedere al ricatto, assicura, fu importante in quanto «dopo si sono comportati bene (hanno trattato bene l’ostaggio, ndr) perché ai tempi c’era anche Peppe Pesce mischiato in mezzo». Pesce è un altro nome mai emerso dalle indagini svolte trent’anni fa: «Era latitante, viveva in una casa sperduta nelle terre di Rosarno». E comandava come un vero boss: «Quando parlava non è che diceva due parole: ne diceva solo mezza, e si doveva fare».
Nel dialogo captato dalla Dda, Zito aggiunge un altro dettaglio che potrebbe riscrivere la storia del sequestro: «Per Celadon bloccarono i soldi. Li ha tirati fuori Amenduni, il padrone delle Acciaierie Valbruna». L’ingegnere vicentino Nicola Amenduni oggi ha 102 anni ed è stato uno dei più importanti industriali italiani. Ma quella di Zito è solo una millanteria? Oppure fu davvero Amenduni ad aiutare quel papà di Arzignano ad aggirare il blocco dei beni pur di salvare suo figlio?
Candido Celadon - all’epoca proprietario di una fiorente azienda conciaria - è morto qualche anno fa. E Carlo oggi la mette in questi termini: «Non posso sapere tutto ciò che fu fatto per ottenere la mia liberazione. Quel che so, è che Amenduni fu uno dei pochi amici sinceri di mio padre e fece tutto ciò che poteva per aiutarlo a riportarmi a casa, anche dandogli dei consigli e indicandogli persone delle quali poteva fidarsi. Devo molto alla famiglia Amenduni e papà andava a piangere sulle spalle dell’ingegnere, in quei mesi. Non mi sorprenderebbe se l’avesse aiutato anche economicamente. Ma fosse andata così, sono sicuro che quel sostegno arrivò “da padre a padre”, come se Nicola Amenduni immaginasse che, al posto mio, poteva esserci uno dei suoi figli».
Federico Fava, avvocato e docente di Diritto penale all’università di Trento, appare più cauto: «Molte indagini dimostrano che, specie negli ambienti mafiosi, la millanteria è una strategia molto diffusa: vantare inesistenti aderenze con il boss di turno oppure la partecipazione a importanti azioni illegali, è un modo per accrescere il proprio spessore criminale agli occhi sia dei complici che delle proprie vittime».
Eppure, le rivelazioni non sono finite. Dalle carte dell’inchiesta emerge che la mattina del 16 febbraio del 2019 Angelo Zito è di nuovo in viaggio con Callipari, al quale spiega che Celadon «lo teneva il latitante Mommo» (non è escluso si tratti sempre di Peppe Pesce) e ribadisce di aver trasportato una tranche del riscatto dal nord alle regioni del sud Italia: «Quando mi hanno dato la busta, li ho messi sotto il sedile della Peugeot e sono stato fesso a non prendermi qualcosa: mica si accorgevano quanto mancava». Insomma, ebbe la tentazione di intascarsi parte della somma ma non lo fece. Altri non ebbero lo stesso riguardo: rivela che dai soldi versati per la liberazione di Celadon «mancarono circa dieci milioni» e che in seguito «sono stati scoperti chi se ne approfittò per intascarseli». Come andò a finire è facile immaginarlo: derubare del «suo» riscatto un boss della ‘ndrangheta, è uno sgarro che non può restare impunito.
L’esperto Ma potrebbero essere millanterie per apparire un bravo criminale