Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
CREDERE SOTTO LA MASCHERINA
Don Silvano Daldosso è un prete veneto che da 13 lavora come missionario in Mozambico, Africa profonda. Da alcuni mesi, oltre all’emergenza covid, si trova a fronteggiare l’esodo di migliaia di persone che arrivano dalle sue parti scappando dalle milizie jihadiste che nel Nord del Paese stanno facendo stragi a man bassa. Ultimo bollettino, 50 persone decapitate. Quando, nei mesi scorsi, aveva letto delle proteste cattoliche di casa nostra per le messe sospese e le chiese chiuse, padre Silvano era trasecolato: «Possibile che da voi la fede viva ancora di solo «sacro»?», era stata la sua disarmante disamina. Ora ci ri-siamo. E l’interrogativo si riaffaccia. La prospettiva di un Natale senza celebrazioni assembleari pubbliche non risulta così remota, l’ha paventata anche il patriarca Moraglia nell’intervista pubblicata nei giorni scorsi su queste pagine. Ma sembra quasi che, in questo tempo bizzarro e curioso, il credente abbia faticato a trovare modi e rimodulare la propria identità in un’epoca liquida come la nostra: così liquida da trovarsi rinchiusa in casa (in primavera), fortemente limitata (oggi) dalla diffusione di un virus, relegata (un domani) a una presenza invariabilmente nuova.
Inedita.
La parola potente di papa Francesco a marzo scorso, nell’apocalittica piazza San Pietro, sembra un’eco lontana di una capacità della Chiesa di parlare al mondo. Oggi i cattolici e le parrocchie sono spaesati, agganciati a un instabile presente che non lascia travedere un grande futuro. Ma questo impasse denuncia anche un gap culturale rispetto al tempo che stiamo vivendo. Eppure la storia ha presentato dei casi eclatanti nei quali i credenti sono stati chiamati a scelte audaci e quasi impossibili. E vi hanno risposto con insospettabile creatività. Chi ha visto Silence, il film di Martin Scorsese tratto dall’omonimo romanzo di Shusaku Endo, ha conosciuto la storia dei cristiani giapponesi che tra il Sei e il Settecento rimasero senza un prete per due secoli. E conservarono la fede. Perché questa situazione di chiusura non spalanca e dà il la a fantasie di vita e di fede che arricchiscono il bene comune? Tre aneddoti sentiti di persona: un anziano parroco, durante il lockdown, passava l’intera giornata al telefono, chiamando uno a uno i suoi parrocchiani. Un altro ha portato l’eucaristia nelle famiglie. Rifacendo di ogni casa una chiesa. Una bimba, Lorenza, ha scritto al virus: «Grazie, mi hai tolto tanto, ma mi hai ridato i miei genitori. Prima stavano davanti all’iphone o fuori casa, ora giochiamo insieme». Questo deficit di creatività che pare trasparire dalle comunità cristiane non suona come una buona notizia anche per l’insieme della società. L’ingrigirsi dei partecipanti, l’affievolirsi dello slancio missionario, il ritrarsi in una dimensione rivendicativa e non aperturale del cristianesimo (insomma, più mons. Viganò che papa Francesco) non è una gran cosa. Soprattutto se queste chiusure si annidano nella chiesa istituzione. Qualcuno, invece, dentro il recinto ecclesiale cerca di portare la palla più avanti. Erio Castellucci, presule di Modena, riflettendo su chiesa e covid19, ha buttato lì un quesito: «La domanda di fondo che mi sto ponendo come uomo, cristiano e ministro della Chiesa cattolica, è: «quando toglieremo le mascherine, che faccia avremo?». Che la Chiesa abbia, oggi e domani, una faccia aperta, accogliente e creativa, è interesse dell’intera società. Il contrario, sarebbe un impoverimento che non possiamo permetterci.