Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
«Fatemi uscire di galera, non sono più il Mostro»
Il serial killer: «E il mio amore per una studentessa si è spento»
VERONA «Io ricordavo di averle seppellite, non di averle uccise».
Sei vittime accertate, un book fotografico con settemila scatti delle donne stuprate e uccise, una condanna all’ergastolo. Alla vigilia della messa in onda, domani sera su Nove, della lunga intervista dal carcere di Bollate, oggi Gianfranco Stevanin, il serial killer che tra il 1993 e il 1994 uccise almeno sei donne dopo averle costrette a pratiche sessuali estreme, si proclama attraverso il suo difensore «un uomo diverso, profondamente cambiato dal carcere». Dice di «non essere più il mostro di Terrazzo» e, come ha già fatto nel recente passato, torna a chiedere «una possibilità per poterlo dimostrare».
Il mese scorso Stevanin ha compiuto 60 anni e «il suo sogno si chiama libertà». Più realisticamente, il suo difensore Francesco D’Andria punta a fargli ottenere un permesso premio e una nuova perizia psichiatrica: «Stavamo per procedere con le richieste qualche settimana fa - rivela l’avvocato di Stevanin - ma poi l’emergenza Covid ha rallentato tutto. Ma solo per ora». Il legale milanese gli ha fatto visita nel penitenziario «quindici giorni fa, l’ho trovato tutto sommato bene, anche se il suo pensiero fisso sarebbe quello di poter uscire e rifarsi una vita».
L’anno scorso era anche filtrata la notizia di un«avvicinamento » di Stevanin a una studentessa di psicologia, si parlava addirittura di «storia d’amore». Un rapporto epistolare, il loro, eppure Stevanin aveva confidato di crederci: «Mi sono innamorato, vorrei sposarmi, quando ricevo le sue lettere sento le farfalle nello stomaco. Lei mi capisce, il solo fatto che si interessi a me mi fa camminare a un metro da terra. Molti qui in carcere si vergognerebbero di raccontare un’emozione così, io no». Dodici mesi dopo, di quella passione pare sia rimasto ben poco: «La cosa si è spenta».
Dopo essere rimasto 26 anni rinchiuso dietro le sbarre, però, Stevanin vuole comunque guardare al futuro e ricominciare: «Purtroppo, però, - ammette il suo avvocato - quando ti etichettano come “serial killer” e “mostro”, è arduo poi trovare qualcuno che ti offra una seconda possibilità».
Vorrebbe poter usufruire di permessi che gli consentano di lasciare il penitenziario per andare in comunità: «Brevi uscite, niente di più, che gli diano la possibilità di svolgere piccoli lavoretti e rendersi utile dopo aver passato oltre un quarto di secolo, ormai, in cella».
L’avvocato D’Andria ne è certo: «È giunta l’ora che anche a lui sia riconosciuto il diritto di trascorrere qualche ora fuori dal carcere».
Per questo propone che un team di consulenti composto da psicologi e criminologi possa accertare se Stevanin sia ancora un uomo socialmente pericoloso: «Il problema sono i costi, un esame del genere comporta spese quanto mai impegnative».
Neppure l’appello rivolto dal legale «a qualche comunità disposta a ospitarlo»ha finora avuto fortuna: dopo un primo avvicinamento, anche i contatti con Don Mazzi si sono raffreddati. E domani alle 21.25, intanto, Stevanin riaprirà cassetti dei suoi agghiaccianti ricordi davanti alle telecamere del Nove, tornando a quegli anni Novanta in cui lui, apparentemente così educato e gentile, ha violentato, torturato e fatto a pezzi cinque donne, per poi nasconderne i poveri resti nei campi che circondavano la casa di famiglia, a Terrazzo, in provincia di Verona. «Ma ricordo solo di averle seppellite, non di averle uccise. Nella mia mente - sostiene - c’è stata una rimozione di quegli omicidi». E spera ancora di rifarsi una vita a 60 anni, ventisei dei quali passati in cella.