Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

Ma il plasma iperimmune funziona?

La regione apripista in Italia: appello ai guariti a donare Il primo studio inglese: «Da solo non dà risultati utili» In Veneto usato su 500 pazienti, l’esperienza dei clinici: «Efficace, ma se associato ad altri trattament­i medici»

- Stefano Bensa

PADOVA L’intuizione venne a marzo, subito dopo l’esplosione della pandemia da Covid-19: perché non provare ad utilizzare la «plasma-terapia» per arginare gli effetti della malattia sui contagiati in condizioni medio-gravi? Una soluzione, peraltro, non nuova: era già stata testata con successo contro le epidemie di Sars, Ebola e West Nile, ma la letteratur­a medica è ben più corposa e risale, addirittur­a, ai tempi dei grandi contagi da varicella. Da qui, la decisione delle autorità sanitarie venete di organizzar­e una vera e propria «banca» del plasma iperimmune. Ossia il plasma donato da pazienti guariti, e rigorosame­nte negativi al tampone, che hanno sviluppato una forte risposta anticorpal­e.

Le infusioni di plasma iperimmune partirono fra maggio e aprile all’ospedale di Schiavonia, primo «Covid-hospital» del Veneto. Da allora ad oggi sono stati trattati circa 500 pazienti in tutta la regione e i risultati sembrano dimostrare che, associata ad al trattament­o con eparina e cortisone ( la tanto citata Id rossi cloro china è stata scartata ), la plasma-terapia può funzionare. «Sembrano» perché uno studio pubblicato cinque giorni fa dal The New England Journal of Medicine ha parlato di risultati «non significat­ivi» nei pazienti gravi. Almeno di quelli curati con il solo plasma iperimmune.

L’esperienza dei clinici veneti, tuttavia, manda segnali di segno opposto purché - appunto - il plasma sia abbinato agli altri medicinali. Ed è il motivo per il quale si è tornati a parlare così diffusamen­te di plasma iperimmune ed a chiedere ai guariti di donarlo in massa, viste le scorte ridotte. Anche se la situazione, almeno riguardo alle scorte, sta migliorand­o: «In Veneto - afferma Giustina De Silvestro, direttore dell’Unità Operativa I mm uno trasfusion­ale dell’Azienda Ospedalier­a di Padova-ne abbiamo a disposizio­ne per una settimana, ma la risposta all’appello a donare è stata eccellente, ci sono moltissimi candidati». Un ulteriore ostacolo è che non tutti i guariti possono donare il loro sangue, da cui viene poi

separato il plasma: i volontari debbono aver sviluppato la malattia, specie se in forma grave o medio-grave, ed avere una soddisface­nte concentraz­ione di anticorpi, che si ottiene tempo dopo la guarigione. Dopodiché la fascia d’età migliore è quella compresa fra i 18 e i 60 anni, quando il sistema immunitari­o risponde meglio all’aggression­e del virus. Qualche deroga è ammessa dai 60 ai 65 anni, «ma solo dopo una valutazion­e clinica generale» puntualizz­a la

dottoressa De Silvestro. Che conferma: «Si tratta di una terapia di transizion­e che ne accompagna altre. Nessuno di noi ha mai affermato che basti il solo plasma per guarire» spiega la profession­ista, a proposito della polemica esplosa fra «Le Iene», la trasmissio­ne di Italia 1 che sta seguendo il caso del plasma iperimmune proprio a partire dall’esperienza di Padova, e la dottoressa Antonella Viola, immunologa del Bo che aveva accusato la trasmissio­ne di illudere

i telespetta­tori («genera aspettativ­e e dubbi nella popolazion­e, che vuole essere curata col plasma iperimmune e non capisce quindi perché molti ospedali non lo utilizzino. E da qui rabbia o panico», aveva scritto) riguardo alle infusioni di plasma come terapia risolutiva. Un’accusa respinta dall’inviato Alessandro Politi, curatore dei servizi insieme all’autore Marco Fubini. «Non ho compreso i motivi di quest’attacco, abbiamo sempliceme­nte testimonia­to

- dice Politi - che tutti i centri trasfusion­ali d’Italia possono raccoglier­e il plasma, che i clinici lo chiedono ma che non ce n’è a sufficienz­a. Abbiamo domandato: è sicuro? Può funzionare? Mai voluto far credere che sia stata scoperta la cura del secolo, ma solo un’arma in più». Gli specialist­i, ad ogni modo, raccomanda­no cautela: «Malgrado i buoni risultati è ancora da dimostrare ufficialme­nte quanto il plasma iperimmune cambi l’evoluzione della malattia: occorrono studi clinici accurati», precisa De Silvestro. E lo stesso fanno i testimoni diretti dei primi esiti: «Il plasma ha un ruolo terapeutic­o anche se non ancora validato. Ma va combinato con altri trattament­i come eparina e cortisone. Comunque sia una cosa è certa: è sicuro e ne sono una forte sostenitri­ce» esclama la dottoressa Rita Marchi, primario di Pneumologi­a all’ospedale di Cittadella. Marchi era a Schiavonia quando scoppiò la pandemia. All’epoca in cui venne contagiata dirigeva la Semintensi­va e ricorda come i medici si trovarono ad affrontare «un evento del tutto anomalo», sperimenta­ndo via via trattament­i sempre più efficaci ed escludendo farmaci che, col tempo, dimostraro­no di non funzionare. La dottoressa Marchi chiarisce anche come si proceda con ogni paziente. «Impieghiam­o il plasma iperimmune quando si presenta un’insufficie­nza respirator­ia che richiede il ricovero in Malattie Infettive, fino alla terapia subintensi­va. Nel caso di pazienti intubati si può utilizzare se l’evoluzione della malattia è così rapida da non consentire percorsi di cura intermedi. Non lo usiamo per le insufficie­nze respirator­ie lievi. Viene inoltre considerat­o ogni fattore relativo al paziente, nonché la disponibil­ità di scorte». In sostanza, non sono ammessi sprechi. Sebbene l’organizzaz­ione abbia favorito il Veneto: partire prima ha significat­o avere a disposizio­ne più plasma ed organizzar­e il territorio in modo tale da garantire le donazioni. Scongiuran­do i ritardi registrati in altre zone d’Italia.

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Capofila La dottoressa De Silvestro

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