Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
Ma il plasma iperimmune funziona?
La regione apripista in Italia: appello ai guariti a donare Il primo studio inglese: «Da solo non dà risultati utili» In Veneto usato su 500 pazienti, l’esperienza dei clinici: «Efficace, ma se associato ad altri trattamenti medici»
PADOVA L’intuizione venne a marzo, subito dopo l’esplosione della pandemia da Covid-19: perché non provare ad utilizzare la «plasma-terapia» per arginare gli effetti della malattia sui contagiati in condizioni medio-gravi? Una soluzione, peraltro, non nuova: era già stata testata con successo contro le epidemie di Sars, Ebola e West Nile, ma la letteratura medica è ben più corposa e risale, addirittura, ai tempi dei grandi contagi da varicella. Da qui, la decisione delle autorità sanitarie venete di organizzare una vera e propria «banca» del plasma iperimmune. Ossia il plasma donato da pazienti guariti, e rigorosamente negativi al tampone, che hanno sviluppato una forte risposta anticorpale.
Le infusioni di plasma iperimmune partirono fra maggio e aprile all’ospedale di Schiavonia, primo «Covid-hospital» del Veneto. Da allora ad oggi sono stati trattati circa 500 pazienti in tutta la regione e i risultati sembrano dimostrare che, associata ad al trattamento con eparina e cortisone ( la tanto citata Id rossi cloro china è stata scartata ), la plasma-terapia può funzionare. «Sembrano» perché uno studio pubblicato cinque giorni fa dal The New England Journal of Medicine ha parlato di risultati «non significativi» nei pazienti gravi. Almeno di quelli curati con il solo plasma iperimmune.
L’esperienza dei clinici veneti, tuttavia, manda segnali di segno opposto purché - appunto - il plasma sia abbinato agli altri medicinali. Ed è il motivo per il quale si è tornati a parlare così diffusamente di plasma iperimmune ed a chiedere ai guariti di donarlo in massa, viste le scorte ridotte. Anche se la situazione, almeno riguardo alle scorte, sta migliorando: «In Veneto - afferma Giustina De Silvestro, direttore dell’Unità Operativa I mm uno trasfusionale dell’Azienda Ospedaliera di Padova-ne abbiamo a disposizione per una settimana, ma la risposta all’appello a donare è stata eccellente, ci sono moltissimi candidati». Un ulteriore ostacolo è che non tutti i guariti possono donare il loro sangue, da cui viene poi
separato il plasma: i volontari debbono aver sviluppato la malattia, specie se in forma grave o medio-grave, ed avere una soddisfacente concentrazione di anticorpi, che si ottiene tempo dopo la guarigione. Dopodiché la fascia d’età migliore è quella compresa fra i 18 e i 60 anni, quando il sistema immunitario risponde meglio all’aggressione del virus. Qualche deroga è ammessa dai 60 ai 65 anni, «ma solo dopo una valutazione clinica generale» puntualizza la
dottoressa De Silvestro. Che conferma: «Si tratta di una terapia di transizione che ne accompagna altre. Nessuno di noi ha mai affermato che basti il solo plasma per guarire» spiega la professionista, a proposito della polemica esplosa fra «Le Iene», la trasmissione di Italia 1 che sta seguendo il caso del plasma iperimmune proprio a partire dall’esperienza di Padova, e la dottoressa Antonella Viola, immunologa del Bo che aveva accusato la trasmissione di illudere
i telespettatori («genera aspettative e dubbi nella popolazione, che vuole essere curata col plasma iperimmune e non capisce quindi perché molti ospedali non lo utilizzino. E da qui rabbia o panico», aveva scritto) riguardo alle infusioni di plasma come terapia risolutiva. Un’accusa respinta dall’inviato Alessandro Politi, curatore dei servizi insieme all’autore Marco Fubini. «Non ho compreso i motivi di quest’attacco, abbiamo semplicemente testimoniato
- dice Politi - che tutti i centri trasfusionali d’Italia possono raccogliere il plasma, che i clinici lo chiedono ma che non ce n’è a sufficienza. Abbiamo domandato: è sicuro? Può funzionare? Mai voluto far credere che sia stata scoperta la cura del secolo, ma solo un’arma in più». Gli specialisti, ad ogni modo, raccomandano cautela: «Malgrado i buoni risultati è ancora da dimostrare ufficialmente quanto il plasma iperimmune cambi l’evoluzione della malattia: occorrono studi clinici accurati», precisa De Silvestro. E lo stesso fanno i testimoni diretti dei primi esiti: «Il plasma ha un ruolo terapeutico anche se non ancora validato. Ma va combinato con altri trattamenti come eparina e cortisone. Comunque sia una cosa è certa: è sicuro e ne sono una forte sostenitrice» esclama la dottoressa Rita Marchi, primario di Pneumologia all’ospedale di Cittadella. Marchi era a Schiavonia quando scoppiò la pandemia. All’epoca in cui venne contagiata dirigeva la Semintensiva e ricorda come i medici si trovarono ad affrontare «un evento del tutto anomalo», sperimentando via via trattamenti sempre più efficaci ed escludendo farmaci che, col tempo, dimostrarono di non funzionare. La dottoressa Marchi chiarisce anche come si proceda con ogni paziente. «Impieghiamo il plasma iperimmune quando si presenta un’insufficienza respiratoria che richiede il ricovero in Malattie Infettive, fino alla terapia subintensiva. Nel caso di pazienti intubati si può utilizzare se l’evoluzione della malattia è così rapida da non consentire percorsi di cura intermedi. Non lo usiamo per le insufficienze respiratorie lievi. Viene inoltre considerato ogni fattore relativo al paziente, nonché la disponibilità di scorte». In sostanza, non sono ammessi sprechi. Sebbene l’organizzazione abbia favorito il Veneto: partire prima ha significato avere a disposizione più plasma ed organizzare il territorio in modo tale da garantire le donazioni. Scongiurando i ritardi registrati in altre zone d’Italia.