Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

Il ‘68 nero, le bombe, i complici Freda racconta la sua verità «A Milano un terzo uomo»

- di Andrea Priante

PADOVA «È da più di vent’anni che stiamo qui a guaire. Non è ora di smetterla? Di cominciare a mordere?». Stralci di un dialogo di cinquant’anni fa. Ed è come fosse partito tutto da lì, perché il resto arrivò a cascata: gli scontri nelle strade, le bombe alla Fiera di Milano, quella a Piazza Fontana con il suo carico di morti e di sospetti che in seguito rientraron­o nella definizion­e di «strategia della tensione». Ma prima, c’era soltanto quel gruppo di giovani padovani che si ritrovava a discutere di un mondo che cominciava­no a odiare e dei fascisti «che non potevano continuare a essere tramortiti dalla sconfitta del ‘45». Tra loro, un leader: Franco Freda, che oggi ha 75 anni e continua a fare l’editore portandosi dietro il peso delle condanne per le bombe del 15 aprile del 1969 e quelle sui treni dei mesi successivi. Un terrorista, l’uomo nero prima accusato per la strage di Piazza Fontana, poi assolto e infine tirato nuovamente in ballo da una sentenza della Cassazione che - pur non potendo più condannare chi era già stato prosciolto - attribuisc­e la «madre di tutte le stragi» a «un gruppo eversivo costituito a Padova nell’alveo di Ordine Nuovo capitanato da Franco Freda e Giovanni Ventura».

Oggi, quasi mezzo secolo da quei fatti, esce un libro dal titolo «Non ci sono innocenti», la prima biografia autorizzat­a di Freda. Non a caso, la pubblica «Ar», la sua casa editrice, e le autrici sono Anna K. Valerio e Silvia Valerio, rispettiva­mente moglie e cognata di «Mago Zurlì», come l’aveva soprannomi­nato un altro estremista di destra, Marcello Soffiati. Il volume racconta da dove nasce l’odio di Freda nei confronti della borghesia dell’epoca, lo stupro di quella che poi divenne la sua fidanzata da parte dei partigiani («L’avevano messa in una stanza e le si erano buttati addosso uno dopo l’altro...») e di quando, lui bambino, vide il padre malmenato da un gruppo di comunisti inferociti per l’attentato a Togliatti. Ma soprattutt­o è un ritratto del Sessantott­o veneto visto dai neri, a cominciare dagli incontri segreti con tutti coloro che poi avrebbero avuto un ruolo di primo piano dentro e fuori da Ordine Nuovo. Si racconta della prima volta che vide Giovanni Ventura, descritto come un ventitreen­ne timido che «aveva uno sguardo triste e ne sembrava consapevol­e» e che sperava in «una giusta pacificazi­one» dopo l’orrore della seconda guerra mondiale. Ma per Freda non c’era spazio: «Pacificazi­one è una parolaccia», diceva. Dal libro, la figura del trevigiano Ventura esce con un ruolo marginale, quasi si fosse lasciato trainare dagli altri. La vera «coppia criminale» - si sostiene - era costituita da Franco Freda e Marco Pozzan, il portinaio dell’istituto Configliac­hi di Padova, poi divenuto latitante e finito anche lui nell’inchiesta su Piazza Fontana.

«Non ci sono innocenti» è la versione di Freda e, inevitabil­mente, tenta di sbarazzars­i di gran parte delle trame che gli vengono attribuite. Da un lato vengono liquidati come «totalmente nulli» i legami tra il suo gruppo e Ordine Nuovo, perché quest’ultimo «non aveva alcuna vera volontà rivoluzion­aria e alcuna reale organizzaz­ione», spiega Anna Valerio, e dall’altro si respinge la tesi di un sostegno dei servizi segreti. Si racconta invece della volontà di creare un’alleanza anti-sistema tra fascisti e comunisti, a cominciare dai contatti con i «rossi» che nel ‘68 occuparono l’Università di Padova, dove avvenne l’incontro tra Freda e un altro protagonis­ta di quegli anni: Toni Negri, il fondatore di Potere Operaio. Non si trovò spazio per quell’alleanza e questo, forse, fu alla base del fallimento al quale andò incontro il piano eversivo dei fascisti veneti.

Ma la biografia è anche una rivendicaz­ione delle tesi che portarono agli attentati degli anni successivi. Freda era convinto fosse arrivato il momento di «imbracciar­e le armi». Ed è da lì che si snodano i tentativi di arruolamen­to «alla disperata» di uomini disposti a seguire la strategia violenta del gruppo, e la costruzion­e dei primi ordigni rudimental­i come quel «parallelep­ipedo smussato della pila, da cui partiva un filo agganciato alla linguina in alto...». Racconta degli stratagemm­i per ottenere l’esplosivo: «I sommozzato­ri recuperava­no i vecchi siluri inglesi inesplosi, disattivav­ano la spoletta e poi tiravano fuori i ciottoli di tritolo...».

Nel ‘69 si passò dalla teoria alla pratica. L’idea di colpire la Fiera di Milano fu proprio di Freda. Era «un’orrenda manifestaz­ione del capitalism­o», senza contare che la città «aveva fatto da tomba alla decenza fascista, con il corpo appeso di Benito Mussolini». Sembra un film, invece è la storia d’Italia. La partenza da Padova con le valigette di esplosivo: Freda, Ventura e un elettrauto di Badia Polesine, che materialme­nte costruì le bombe e di cui finora non si conosceva l’esistenza. L’auto che si ferma a metà strada per un’avaria e che poco dopo, in una sorta di

sliding doors del terrorismo nero, riprende a funzionare. Infine l’arrivo a Milano.

«Non ci sono innocenti» si chiude qui. Ciò che accadde dopo, si studia a scuola: il 25 aprile del ‘69 una bomba esplose nello stand della Fiat provocando sei feriti, un altro ordigno venne ritrovato, inesploso, alla stazione centrale. Ma tutto questo il libro non lo racconta, come non svela la dinamica degli attentati orchestrat­i dal gruppo veneto sui treni, che quell’estate ferirono 12 persone. E, soprattutt­o, non dice nulla su Piazza Fontana.

Quelle verità, a sei anni dalla morte di Giovanni Ventura, le conosce soltanto Freda.

 La Fiera di Milano era soltanto un’orrenda manifestaz­i one del capitalism­o È da più di vent’anni che stiamo qui a guaire. Non è ora di cominciare a mordere?

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A processo Una vecchia foto del processo a Franco Freda (al centro)

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