Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Le lettere (inedite) dei prigionieri della Grande Guerra
Grande Guerra Pubblicate le missive italiane censurate dagli austriaci
Dobbiamo ancora essere grati agli efficienti burocrati di Sua Altezza Imperiale Francesco Giuseppe, per aver nominato, nel settembre 1915, Leo Spitzer, ritenuto oggi il massimo esponente della critica stilistica, censore della posta militare italiana a Vienna.
Il grande filologo, infatti, oltre a fare il suo dovere, vagliando attentamente le migliaia di lettere che i soldati italiani prigionieri in Austria scrivevano ai loro cari, pensò bene di continuare a svolgere la sua attività scientifica raccogliendo, nelle poche ore libere che gli rimanevano dopo il lavoro, un’immensa mole di citazioni catalogate per contenuto. Quando nel 1921 (in Italia solamente nel 1976) le Lettere di prigionieri di guerra italiani vennero per la prima volta pubblicate, l’impatto fu potente: per la prima volta si poteva infatti «leggere« la Grande Guerra anche dal basso, ascoltare la narrazione degli «ultimi». Un punto di svolta per gli studi storici e linguistici.
In questi giorni Il Saggiatore ripropone quest’opera capitale in una nuova edizione (481 pagine, 30 euro) a cura di Lorenzo Renzi che, grazie a importanti scoperte filologiche, completa le lettere con i nomi dei mittenti e con preziose correzioni che restituiscono integrità ai testi. Possiamo così dare un volto anche a molti di quei nostri corregionali che vissero parte della loro Grande Guerra nella particolare condizione della prigionia, condizione, peraltro, oltremodo tragica. Come evidenziato dagli studi di Giovanna Procacci, infatti, su 600mila prigionieri italiani, circa 100mila ne perirono per fame, malattia o freddo. Una percentuale particolarmente alta, sulla cui entità non poche responsabilità ebbe il nostro governo che, unico nel panorama dei belligeranti, bloccò l’invio di aiuti alimentari dalla Patria per scoraggiare le diserzioni al fronte. In questo contesto è ovvio che il tema della fame e delle altre sofferenze prevalga.
Scrive il padovano Giuseppe Tigno: «Se potete mandatemi due fugase cote soto il fuoco che ame sono tanto
oro». C’è chi brama le delizie di un tempo, come Nebrilio Castellanis di Costalunga Brognoligo in provincia di Verona, prigioniero a Mauthausen: «Ora vi prego, che ogni otto o quindici giorni mi spedite dei pacchi contenente fugaccie di Pasqua o brasadeloni ed del
formaggio ed altra roba». Celeste Lanaro da Theresiendtadt (come si può notare molti dei campi di prigionia della prima guerra mondiale sono gli stessi utilizzati dai nazisti nella seconda), rivolgendosi ai familiari pensa più al freddo, non esimendosi però, nel richiedere alcuni capi, dall’esprimere le sue preferenze: «Mi puoi spedire un paco di ch. 5 e il mio vestito dinverno il mio beretto nuovo capello una camicia di quelle che costumano adeso con le punte». Per alcuni prigionieri l’amore verso la famiglia è talmente assoluto da spingerli persino ad inviare a casa quel poco denaro di cui possono disporre. È il caso di Eugenio Vescovo di Livenza, in provincia di Venezia, prigioniero a Katzenau: «Sapi che tio spedito lire 50 e quando lericevi fami sapere subito e conquele vesti le mie care io meleotolte dala Boca di più non poso tienti una regola qual che Bichiere divino coragio Maria». E tutti ad aspettare la pace, come confermano le parole di Quinto Carboniero da Altavilla Vicentina: «Spera cara Molie che vada terminata questa guerra micidiale che fa piangere madri, Padri, Molie. Figli. Fratelli e Sorelle». Sono testimonianze commoventi giunteci per merito di un intellettuale che, rifiutando il «tanfo polveroso di una scienza squallida», cercava l’ascolto «della vita dove essa pulsa più fervida».