Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
QUATTRO DOMANDE SUI PFAS
Da oggi Antonino Condorelli, già procuratore generale di Venezia, inizia la sua collaborazione con il Corriere del Veneto.
L’ inquinamento da PFAS nel Veneto ha comprensibilmente assunto sempre maggiore rilievo, considerando le impressionanti proporzioni quali quantitative del fenomeno, l’estensione dei territori (parte di ben tre province) e il numero degli abitanti coinvolti (centinaia di migliaia di persone). Nei giorni scorsi, accanto a novità importanti riguardanti costosi, ma certamente doverosi, interventi tecnologici a tutela delle acque potabili, si sono registrate accese polemiche sulle competenze e attribuzioni, e sulle conseguenti responsabilità delle Istituzioni, e in particolare di Stato e Regione. Quest’ultima, giustamente preoccupata dalla persistenza e diffusione del massiccio sversamento in corsi d’acqua superficiali e in pubbliche fognature in essi recapitanti, causato in misura preponderante da uno stabilimento industriale del Vicentino, ha ritenuto indispensabile ridurre drasticamente i limiti di presenza negli acquedotti delle sostanze per fluoro alchiliche, lamentando al riguardo l’inerzia degli organi dello Stato, da questi invece spiegata con le (per vero non pacifiche) dimensioni propriamente «regionali» della questione.
Aloro volta i responsabili dell’insediamento produttivo Miteni affermano di essersi pienamente attenuti alle autorizzazioni e normative vigenti, negando altresì di essere gli unici responsabili degli apporti inquinanti. In questi apparenti, e spesso purtroppo consueti, rimpalli di responsabilità vi è pero un organo parlamentare – la Commissione di inchiesta sugli illeciti ambientali - che sembra aver fatto appieno il proprio dovere portando evidenti elementi di chiarezza, con la relazione dell’8 febbraio 2017. Dopo la lettura del pubblico documento, che ha fra l’altro sottolineato «la grande confusione che regna nella gestione delle sostanze perfluoroalchiliche» e la necessità di intervenire col necessario rigore sui limiti degli scarichi in fognatura della Miteni (quelli più importanti perché concernenti le acque di processo, quindi più inquinate) attualmente «fissati solo per un numero limitato di PFAS e per di più con valori altissimi», e del depuratore di Trissino «con valori ancora molto alti», ecco le domande che ogni cittadino ha allora il diritto e il dovere di porre esigendone convincenti risposte.
Può il principio di precauzione consentire che si rinvii al futuro, complesso e quindi lontano accertamento, degli esatti termini e (eventuali) limiti della nocività di sostanze certamente estranee all’ecosistema e non favorevoli al suo naturale equilibrio, ogni intervento idoneo a contenere, se non ad interrompere, la loro attuale immissione nei corpi d’acqua e nella falda, nella odierna misura di circa cinque chilogrammi giorno?
E’ sufficiente limitarsi a «ripulire» da buona parte della sostanza inquinante l’acqua destinata al consumo umano prescrivendone anche rigorosi parametri qualitativi, tralasciando di occuparsi dei limiti agli scarichi dello stabilimento, che invece continuano incessantemente ad aggredire tutte le matrici ambientali, senza che sulla fonte di tali inquinamenti si registrino interventi tecnici, normativi e prescrittivi di contenimento?
E’ compatibile con il principio riconosciuto da tutti gli ordinamenti secondo cui «chi inquina paga», che la comunità sostenga spese così ingenti per difendere la potabilità delle sue acque (dell’ordine di diverse diecine di milioni di euro) senza che a coloro che, contribuendo all’inquinamento nella misura del 96,989 per cento («proveniente dall’impianto di depurazione di Trissino, dell’apporto totale di PFAS scaricati nel corso d’acqua Fratta-Gorzone»), sia fatto carico di indennizzare il danno così certamente cagionato?
4) Siamo certi che salvando «soltanto» gli acquedotti, si garantisce la salute delle popolazioni e la integrità dell’ambiente?