Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Barovier: «Un bontempone con un pizzico di follia» Il curatore ripercorre vita e opere dell’artista
Un uomo semplice che parlava e scriveva sempre in dialetto. Ma era dotato di un’apertura al mondo importante Usava vetro molto sottile, sceglieva colori base, pastelli, dal chiaro allo scuro, e li impreziosiva con un effetto metallico, iridescente
«U n omone dalla lunga barba, allegro, un bontempone con un pizzico di follia». Ecco il simpatico ritratto di Vittorio Zecchin disegnato da Marino Barovier, studioso del vetro e curatore della mostra dedicata all’artista muranese e alla sua felice collaborazione con la storica vetreria Cappellin-Venini, le cui creazioni eteree e dalle linee semplici - in netto contrasto con la sovrabbondanza della produzione vetraria del tardo Ottocento – hanno inaugurato un nuovo corso nella produzione di Murano.
Che personaggio era Vittorio Zecchin?
«Era un uomo semplice ma con un’apertura al mondo importante. Parlava e scriveva sempre in dialetto. E in dialetto componeva poesie e redigeva ricette. Aveva molta fantasia, una vena di creatività e genialità. Oltre alla passione per la pittura, sapeva eccellere in quasi tutte le arti decorative».
I vetri di Zecchin sembrano lontani dai suoi canoni pittorici, dalle atmosfere klimtiane de «Le Mille e una notte», opera per cui tutti lo ricordano
«Direi più bizantine che klimtiane. In realtà, quelli che vediamo in mostra sono i vetri realizzati per Cappellin-Venini tra il 1921 e il 1926. Se si guarda alle sue creazioni in vetro precedenti – ad esempio c’è un vaso del 1914 in vetro mosaico a murrine policrome disposte secondo un disegno geometrico, esposto alla XI Esposizione d’Arte di Venezia – vediamo che sono molto pittoriche, dai colori sgargianti, simili agli stilemi de “Le mille e una notte”. Dopo un decennio le cose erano cambiate e lui cerca e trova una direzione che porta alla modernità. Nei colori, nelle linee e nel gusto».
Vittorio Zecchin era figlio di un tecnico vetraio, dunque conosceva bene la materia. Dal punto di vista tecnico i vetri che vediamo in mostra sono difficili da realizzare?
«È un vetro “relativamente” facile per l’epoca. La scelta di un vetro soffiato dallo spessore sottile derivava anche dal fatto che allora c’erano i forni a legna. Raggiungere alte temperature era difficile. Un vetro leggero era più semplice da lavorare».
Affascinano questi vetri trasparenti dalle colorazioni tenui
«Le cromie pastello sono in parte conseguenza di quanto detto: con un vetro sottile i colori diventano più rarefatti. Zecchin scelse colori base, che modulava dal chiaro allo scuro: l’ametista, il verde, il giallo, il blu e l’azzurro».
Il rosso era bandito?
«Nei vetri per Cappellin-Venini lo era. Quel rosso intenso, rubino, era considerato “volgaritmo re”, un colore un po’ smaccato e lontano da quello che oggi chiameremo “il format” richiesto. C’è da dire che forse veniva evitato pure per i costi, nel vetro per ottenere il rosso si deve usare la lamina d’oro e quindi è più costoso».
Quasi tutti i pezzi esposti hanno una leggera iridescenza in superficie. Una piccola concessione che arricchisce vetri dalle linee quasi minimaliste? Sono difficili da realizzare?
«Era una delle caratteristiche ricercate per impreziosire questi lavori. Questo effetto “metallico” si otteneva mettendo il manufatto a fine soffiatura in una cameretta dove si faceva evaporare dello stagno, che si depositava quindi sulla superficie dando l’iridescenza. La difficoltà consisteva nel non esagerare».
I vetri di Zecchin, senza fronzoli, appaiono modernissimi anche a distanza di un secolo
«È stata questa la sua grande intuizione, forme essenziali, come le anfore di romani o etruschi o vasi rinascimentali. Forme senza tempo».