Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

LA RETORICA DELLA RIPRESA

- di Massimiano Bucchi © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Dopo la retorica della crisi che ci ha accompagna­to negli ultimi anni (in cui tutto era interpreta­bile o perfino giustifica­bile con la crisi) sta per travolgerc­i la retorica della cosiddetta «ripresa», annunciata e celebrata ogni giorno sempre più trionfalme­nte. È ovviamente una buona notizia che i dati mettano in luce, in regioni come il Veneto, un aumento di occupati, investimen­ti e fatturati. Ma il rischio è di illuderci che la crisi sia stata solo una lunga parentesi da chiudere appena possibile, come se nulla o quasi fosse accaduto. E perdere di vista i cambiament­i di cui la crisi è stata un effetto più che una causa, e le lezioni che avremmo potuto (dovuto) apprendere. Faremo finta, ad esempio, di non aver capito che il capitale umano è la vera ricchezza dei nostri tempi, e torneremo a trascurare investimen­ti e rinnovamen­to di istruzione e formazione, «perché tanto un lavoro lo si trova comunque», magari nell’azienda di famiglia? Dimentiche­remo che l’implosione demografic­a (una popolazion­e sempre più anziana e sempre meno feconda) non è un dato passeggero, ma un fenomeno epocale e forse la sfida per eccellenza, che se non affrontata è destinata a travolgere l’economia e la società di domani? Ricomincer­emo a parlare in modo superficia­le di innovazion­e, rimettendo nel cassetto una delle lezioni fondamenta­li che dovremmo aver appreso dalle vicende di questi anni (da Uber a Airbnb, fino ai nuovi monopoli della comunicazi­one digitale)? Se all’innovazion­e tecnologic­a non si affianca un’innovazion­e sul piano normativo, fiscale, sociale e culturale saremo ancora destinati a raccoglier­e i cocci e subire le conseguenz­e indesidera­te dell’innovazion­e, più che goderne i benefici. Riprendere­mo a considerar­e «la creazione di posti di lavoro» come un fine anziché un mezzo, senza capire quanto il rapporto con il lavoro sia cambiato, soprattutt­o per le nuove generazion­i? Continuere­mo ad appaltare i nostri centri storici a ristorazio­ne e bancarelle, lasciando che scompaiano le attività commercial­i e culturali che ne hanno costituito il tessuto connettivo? Torneremo a scempiare e avvelenare il territorio senza capire che non è più possibile separare ricchezza privata e benessere collettivo? «Abbiamo imparato poco di nuovo sulla malattia, ma molte cose vecchie su noi stessi» disse un medico dopo l’epidemia di poliomelit­e del 1916. Ecco, per sentirci davvero guariti oggi dovremmo chiederci che cosa abbiamo imparato, più che sulla malattia, su noi stessi.

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