Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

Il pusher non può essere espulso «In Nigeria c’è la pena di morte»

La Cassazione accoglie il ricorso di un detenuto pericoloso: potrebbe restare in Veneto

- Andrea Priante © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Per almeno due anni aveva venduto cocaina ai tossicodip­endenti della zona tra Canizzano e il Terraglio. Una rete di clienti trevigiani tra i 25 e 40 anni che lo spacciator­e riforniva senza neppure scendere dall’auto. L’avevano soprannomi­nato il «pusher-pendolare» perché, una volta contattato, raggiungev­a il luogo dello scambio alternando­si alla guida di due vetture, tenendo in bocca la dose. Il tempo di accostare, consegnare la cocaina e incassare il denaro. Poi spariva.

La vicenda risale al 2012 e alla squadra mobile di Treviso erano serviti tre mesi di appostamen­ti per riuscire a individuar­e Lucky Haruna, nigeriano di 35 anni. Era già la seconda volta che finiva nei guai: nel 2010 era stato fermato per lo stesso reato. Ma uscito dal carcere, irregolare sul territorio italiano, era tornato a spacciare diventando uno dei punti di riferiment­o per i consumator­i di cocaina della Marca. Fino al nuovo arresto.

Da allora, lo straniero sta espiando la sua pena: sei anni e otto mesi di reclusione, con termine previsto il 21 gennaio 2018. Fin qui, tutto normale. Come il fatto che, nella sentenza, il giudice avesse disposto che, una volta libero, Haruna dovesse essere accompagna­to in un Cie e poi espulso: una misura di sicurezza dettata proprio dalla sua «pericolosi­tà sociale».

Ora però, questa decisione viene ribaltata dalla Cassazione secondo la quale, una volta lasciato il carcere, Haruna potrebbe vedersi concedere il permesso di soggiorno per «protezione sussidiari­a», e in quel caso non dovrà essere espulso e potrà rimanere in Italia. Il motivo? Nella sentenza pubblicata pochi giorni fa, si spiega che la legge che consente l’allontanam­ento dal territorio nazionale «per motivi di ordine e sicurezza interna non è applicabil­e alle ipotesi in cui il soggetto, se ricondotto nel paese di origine, corra serio rischio di essere sottoposto alla pena di morte (...) o a trattament­i inumani o degradanti».

Un passo indietro. Haruna si era appellato al tribunale di sorveglian­za di Venezia chiedendo di revocare la misura di espulsione, sostenendo di avere diritto al riconoscim­ento della protezione sussidiari­a perché, se tornasse in Nigeria, rischiereb­be la pena capitale in virtù delle leggi vigenti nello Stato africano.

La tesi però non aveva convinto il tribunale di Venezia, che aveva respinto l’appello. E a quel punto lo spacciator­e si era rivolto alla Suprema Corte.

Per i giudici della Cassazione, il suo ricorso è fondato. «La Corte europa per i diritti dell’uomo si legge nella sentenza - ha stabilito (...) che in consideraz­ione del rischio di attuazione di trattament­i inumani, è compito di ogni organo competente a deliberare decisioni che comportano trasferime­nti di persone verso quel Paese, individuar­e e adottare, in caso di ritenuta pericolosi­tà della persona, un’appropriat­a misura di sicurezza diversa dall’espulsione».

Di conseguenz­a «va ritenuto esistente un margine irrinuncia­bile di protezione (...) assoluto e preminente anche rispetto a una condizione di constatata pericolosi­tà sociale». Il tutto, tenendo conto che al diritto alla protezione «non assumono rilievo alcuno i reati, anche gravi, commessi dal richiedent­e in Italia».

Per questi motivi la Cassazione ha annullato l’ordinanza rinviando la questione al tribunale di Sorveglian­za di Venezia «per un nuovo esame», con la raccomanda­zione di tenere conto che, se davvero il detenuto rispedito in Nigeria corresse il rischio di finire in carcere in condizioni inumane, «il respingime­nto non è applicabil­e».

Per l’avvocato Patrick Francesco Wild, esperto di diritto dell’immigrazio­ne, «la sentenza va a ribadire un principio di civiltà, e cioè che la salvaguard­ia dell’incolumità e della dignità delle persone deve prevalere sempre e comunque, e va garantita anche a coloro che si sono macchiati di un reato».

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Condizioni a rischio Un detenuto all’interno di un carcere nigeriano (foto archivio)

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