Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
L’Italia del Piave Il dopo Caporetto senza retorica
IL SAGGIO Ceschin ricostruisce la reazione della classe dirigente italiana dopo la sconfitta del 1917, un resoconto lontano dall’enfasi e dalle incertezze La militarizzazione della società civile, il governo e le esigenze di modernità
L’ultimo anno della Grande Guerra inizia con la disfatta di Caporetto alla fine di ottobre del 1917 e il successivo arroccarsi dell’esercito in ritirata sulla destra del Piave, mentre gli austriaci raggiungevano la sponda sinistra occupando il Friuli e gran parte delle province di Belluno e Treviso.
Il momento fu davvero terribile, la guerra sembrava perduta, il disordine dilagava travolgendo cose e persone, regole e ruoli, eppure, lungo il fiume che scendeva a valle largo e paziente, in quel precipizio, che paradossalmente proteggeva chiunque lo raggiungesse, iniziò la resistenza prima e poi la riscossa, che giusto un anno più tardi si concluse, oltre il Piave, sotto il Fadalto, tra Ceneda e Serravalle che da allora divennero Vittorio Veneto, con la vittoria di una nazione che si convinse di esser parte dell’Europa e di poter partecipare al disegno di un futuro finalmente moderno, visto che intanto cadevano gli imperi centrali e con essi quel che restava dell’antico feudalesimo.
Questi mesi drammatici ed entusiasmanti furono quelli dell’Italia del Piave, che ora Daniele Ceschin ricostruisce in un brillante e documentato saggio (Salerno, pp. 228, € 15,00), assai equilibrato rispetto a i furori patriottici o le maledizioni pacifiste, ai quali la retorica del centenario ci ha purtroppo abituato: il suo punto di partenza è che «dopo Caporetto la classe dirigente italiana si dimostrò all’altezza del compito e degli obiettivi che si era prefissata», senza enfasi e senza incertezze.
La catastrofe divenne occasione per «una profonda riflessione sul carattere degli italiani», che coinvolse avanguardie intellettuali e dirigenti politici, rappresentanti delle istituzioni e ceti produttivi, inevitabilmente a partire dall’amara constatazione che «l’educazione civile del popolo» restava un obiettivo urgente ma mancato, o che «l’Italia è tutta da rifare e bisogna accingerci seriamente a questo lavoro», come suggeriva Prezzolini, lodando «il bene che Caporetto ha fatto all’Italia» mettendola di fronte ai suoi guai e alle sue vergogne.
Naturalmente tutti i propositi di rinnovamento morale mettevano in moto anche tentazioni autoritarie e processi di militarizzazione della società civile, peraltro già da qualche tempo avviati, cosicché, se il confronto con gli alleati avveniva nel segno di una prassi democratica condivisa, la rapidità e la radicalità della modernizzazione esigevano analoghi caratteri nelle scelte e nella guida del governo, mettendo in crisi una cultura politica logorata da una conflittualità esasperante o da tentazioni più sbrigativamente rivoluzionarie.
Ai giorni del terrore durante l’invasione seguì il periodo delle violenze sistematiche e legalizzate e, finalmente, la rivincita con i giorni delle ultime vendette, in una continuità di sopraffazioni che non sembrava avere fine e coinvolgeva sempre più, oltre ai combattenti, chiunque altro incrociasse i campi di battaglia o soltanto le retrovie: dapprima sfogandosi contro gli stessi soldati allo sbando, visti come disertori o traditori, e, poi, contro i più deboli abitanti dei territori occupati - le donne soprattutto -, o le migliaia di profughi che cercavano riparo ovunque in Italia, in una confusione e in una miseria senza eguali.
Il bilancio della guerra si rivelò disastroso: 650.000 morti, 450.000 mutilati, 500.000 feriti, davvero una strage, che faticava a ritrovare le ragioni dell’entusiasmo della primavera interventista del ‘15, lo slancio dei volontari, e anche a riconoscere gli obiettivi che erano sembrati a portata di mano -le terre irredente, l’altra sponda dell’Adriatico- e ora diventavano le prove inconfutabili di una vittoria «mutilata».
Il rientro dei profughi fu lento e desolato, continuò ininterrottamente almeno fino alla metà del ‘19 e poi ancora per un altro anno, accompagnato da provvedimenti assistenziali e celebrativi: per un verso si istituì un Ministero per le Terre Liberate, che venne affidato al deputato veneziano Antonio Fradeletto, e per l’altro vennero costruiti monumenti o sacrari per tener viva la memoria di tante sofferenze patite, e così iniziava l’amaro storia della nuova Italia.