Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
SE I POLITICI FANNO ANTIPOLITICA
Quando la politica fa l’antipolitica. Lo sciopero dei medici di famiglia è un esempio interessante di appropriazione del linguaggio dell’antipolitica da parte dei politici. E non parliamo tanto del merito della questione che mette in contrapposizione sindacati dei medici e Regione, ma del metodo di lotta utilizzato. Mentre i medici adottano un tradizionale mezzo di lotta sindacale, ancorché del tutto atipico per la categoria, come lo sciopero delle prestazioni (mantenendo quelle urgenti), la Regione ha risposto usando gli argomenti tipici della rabbia populista: quelli della lotta contro presunti intollerabili privilegi, in modo da sollevare un’ondata di indignazione popolare. I medici, come ovvio, sostengono di tutelare non solo i propri interessi, ma il benessere dei propri pazienti, e dunque la salute del paese attraverso quella dei suoi abitanti. In ballo c’è la riorganizzazione dell’assistenza territoriale, che impone più oneri e maggiore burocratizzazione ai medici, e che la Regione intende perseguire, magari per ottimi motivi, ma scaricandone i costi sui medici stessi (o così questi ultimi sostengono). Niente di particolarmente originale, dato che è qualcosa che vediamo ormai in molti settori, pubblici e privati: l’idea di riorganizzare e riformare, di solito a fin di bene, ma con meno oneri possibili per il soggetto riformatore, che quindi finiscono per ricadere sui soggetti «riformati». Aggiungiamoci motivi di sofferenza legati ai tagli in alcuni settori della medicina ospedaliera.
In particolare gli anziani, i sospetti di privatizzazione strisciante di alcune funzioni, e le ricadute che questo comporta per i medici di base, e il piatto delle ragioni del conflitto è servito. La Regione, invece di rispondere nel merito, traslando l’argomentazione dal «che cosa» al «chi», contrattacca sostenendo che si tratta di una categoria superprotetta, che si limita a tutelate i propri inaccettabili privilegi, al punto da divulgarne e stigmatizzarne i (presunti) livelli salariali, facendo circolare voci di stipendi enormemente superiori persino a quelli dei primari ospedalieri, a fronte di un impegno molto minore (il vecchio metodo, usato anche per gli insegnanti, di calcolare come ore di lavoro solo quelle di didattica – e per i medici di base, quelli di apertura dell’ambulatorio: come se il lavoro si esaurisse in quello…). I media – le tv e i social network in particolare – fanno il resto, dando voce solo agli utenti arrabbiati. Dal punto di vista dei politici della Regione, è un capolavoro di furbizia: usare gli argomenti normalmente usati contro i politici (guadagnano cifre assurde, con privilegi intollerabili, e lavorano poco o niente), per attaccare coloro che sono in questo momento la controparte dei politici stessi, rovesciando su di loro le argomentazioni di solito subìte. Del resto, perché non dovrebbero? Con i politici ha funzionato, e ormai è vox populi: perché lo stesso argomento non dovrebbe funzionare se usato dai politici stessi contro chi li ostacola? E infatti, per una quota di popolazione, funziona. La «rabbia della gente» è un argomento retorico potente, e ormai persino un genere letterario, che qualcuno non disdegna di chiamare «gentismo». Condito con «le ragioni incomprensibili della protesta» (come si commenta abitualmente: «la gente non capisce…»), il «disagio» (che certamente è presente) subito dai deboli che diventa il sopruso da parte dei forti (e cattivi), e l’ormai proverbiale grido di «Vergogna!» e «Vergognatevi!», assomiglia notevolmente al piatto più tipico del menu populista – l’indignazione popolare, appunto (con o senza «vaffa» di contorno). Ci limitiamo a constatare che, se l’argomento di discussione diventa questo, i medici hanno una carta in più: loro, almeno, per raggiungere le posizioni acquisite, devono passare per lunghi anni di studio, chi li accusa questo obbligo non ce l’ha… Ma così facendo, oltre a perdere di vista il merito delle questioni, il livello della discussione scade ulteriormente. E, onestamente, non se ne sentirebbe il bisogno.