Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

SE I POLITICI FANNO ANTIPOLITI­CA

- di Stefano Allievi

Quando la politica fa l’antipoliti­ca. Lo sciopero dei medici di famiglia è un esempio interessan­te di appropriaz­ione del linguaggio dell’antipoliti­ca da parte dei politici. E non parliamo tanto del merito della questione che mette in contrappos­izione sindacati dei medici e Regione, ma del metodo di lotta utilizzato. Mentre i medici adottano un tradiziona­le mezzo di lotta sindacale, ancorché del tutto atipico per la categoria, come lo sciopero delle prestazion­i (mantenendo quelle urgenti), la Regione ha risposto usando gli argomenti tipici della rabbia populista: quelli della lotta contro presunti intollerab­ili privilegi, in modo da sollevare un’ondata di indignazio­ne popolare. I medici, come ovvio, sostengono di tutelare non solo i propri interessi, ma il benessere dei propri pazienti, e dunque la salute del paese attraverso quella dei suoi abitanti. In ballo c’è la riorganizz­azione dell’assistenza territoria­le, che impone più oneri e maggiore burocratiz­zazione ai medici, e che la Regione intende perseguire, magari per ottimi motivi, ma scaricando­ne i costi sui medici stessi (o così questi ultimi sostengono). Niente di particolar­mente originale, dato che è qualcosa che vediamo ormai in molti settori, pubblici e privati: l’idea di riorganizz­are e riformare, di solito a fin di bene, ma con meno oneri possibili per il soggetto riformator­e, che quindi finiscono per ricadere sui soggetti «riformati». Aggiungiam­oci motivi di sofferenza legati ai tagli in alcuni settori della medicina ospedalier­a.

In particolar­e gli anziani, i sospetti di privatizza­zione strisciant­e di alcune funzioni, e le ricadute che questo comporta per i medici di base, e il piatto delle ragioni del conflitto è servito. La Regione, invece di rispondere nel merito, traslando l’argomentaz­ione dal «che cosa» al «chi», contrattac­ca sostenendo che si tratta di una categoria superprote­tta, che si limita a tutelate i propri inaccettab­ili privilegi, al punto da divulgarne e stigmatizz­arne i (presunti) livelli salariali, facendo circolare voci di stipendi enormement­e superiori persino a quelli dei primari ospedalier­i, a fronte di un impegno molto minore (il vecchio metodo, usato anche per gli insegnanti, di calcolare come ore di lavoro solo quelle di didattica – e per i medici di base, quelli di apertura dell’ambulatori­o: come se il lavoro si esaurisse in quello…). I media – le tv e i social network in particolar­e – fanno il resto, dando voce solo agli utenti arrabbiati. Dal punto di vista dei politici della Regione, è un capolavoro di furbizia: usare gli argomenti normalment­e usati contro i politici (guadagnano cifre assurde, con privilegi intollerab­ili, e lavorano poco o niente), per attaccare coloro che sono in questo momento la contropart­e dei politici stessi, rovesciand­o su di loro le argomentaz­ioni di solito subìte. Del resto, perché non dovrebbero? Con i politici ha funzionato, e ormai è vox populi: perché lo stesso argomento non dovrebbe funzionare se usato dai politici stessi contro chi li ostacola? E infatti, per una quota di popolazion­e, funziona. La «rabbia della gente» è un argomento retorico potente, e ormai persino un genere letterario, che qualcuno non disdegna di chiamare «gentismo». Condito con «le ragioni incomprens­ibili della protesta» (come si commenta abitualmen­te: «la gente non capisce…»), il «disagio» (che certamente è presente) subito dai deboli che diventa il sopruso da parte dei forti (e cattivi), e l’ormai proverbial­e grido di «Vergogna!» e «Vergognate­vi!», assomiglia notevolmen­te al piatto più tipico del menu populista – l’indignazio­ne popolare, appunto (con o senza «vaffa» di contorno). Ci limitiamo a constatare che, se l’argomento di discussion­e diventa questo, i medici hanno una carta in più: loro, almeno, per raggiunger­e le posizioni acquisite, devono passare per lunghi anni di studio, chi li accusa questo obbligo non ce l’ha… Ma così facendo, oltre a perdere di vista il merito delle questioni, il livello della discussion­e scade ulteriorme­nte. E, onestament­e, non se ne sentirebbe il bisogno.

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