Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
LE DOMANDE CHE NESSUNO HA FATTO
Sulle popolari venete, per la commissione parlamentare d’inchiesta banche è già tempo di bilanci. Con l’audizione dell’ex amministratore delegato di Veneto Banca, Vincenzo Consoli, tre giorni dopo quella dell’ex presidente di Popolare di Vicenza, Gianni Zonin, il lavoro di scavo è di fatto chiuso. A meno di novità dell’ultimo momento, come quelle che potrebbero venire dall’audizione di dopodomani del governatore di Bankitalia, Ignazio Visco. E se l’obiettivo della commissione era di far saltar fuori le cause del crac, stando dalla parte dei risparmiatori, che giudizio si può dare sul contributo effettivo che è venuto da palazzo San Macuto?
Di sufficienza piena, certo, rispetto ai limiti dei controlli. Le necessità, tutte politiche, di addossare, da parte del Pd, le colpe della crisi bancaria a Bankitalia per allontanarle da sé, e al contrario quella di tutti gli altri di mettere in difficoltà la Boschi sul caso Etruria, alla fine hanno rischiato di sovrastare tutto. E tuttavia le contraddizioni della vigilanza sono emerse con chiarezza. Lo scontro tra Bankitalia e Consob è stato lampante. Al pari dell’impressione che ci si sia mossi in ritardo e frettolosamente, dopo l’emersione del caso Mps, cercando di correre ai ripari, una volta capito che con il passaggio alla vigilanza europea tutto sarebbe cambiato. Con l’aggravante, nel caso delle venete, dei due pesi e due misure dal 2013 in avanti: la mano leggera su Vicenza, quella che si fa all’improvviso pesante su Montebelluna.
Il fatto era stato già smascherato dal passaggio della vigilanza alla Bce nel 2015, quando Francoforte in tre mesi aveva fatto venir giù tutto a Vicenza. Senza contare le pressioni per spingere Montebelluna in braccio a Bpvi. Di certo la posizione del capo della vigilanza, Carmelo Barbagallo, è finita sotto pressione.
Ma oltre a questo non si è andato, nell’approfondire le cause del crollo. Certo, l’intervento finale dell’altra sera del vicepresidente Renato Brunetta, pur in tono professorale, è stato utile per ricostruire in extremis il quadro delle responsabilità di contesto. Inutile risolvere il nodo delle colpe andando a cercare pochi dèmoni, è stata la tesi di Brunetta, quando è un intero sistema - dalle banche, alla vigilanza, alla politica - che non ha capito che con la crisi e il passaggio sotto l’Europa sarebbe cambiato tutto. E che alla fine se l’è cavata lasciando il conto da pagare a risparmiatori e contribuenti. Nel mazzo Brunetta ha messo le popolari, che per anni avevano rifiutato un’autoriforma che avrebbe toccato i potentati e le gestioni autoreferenziali cristallizzatesi nel tempo, con i soldi messi dai piccoli soci. E la politica, che prima ha sostenuto che le banche erano solide e non andavano ricapitalizzate, e poi, in rapida successione, ha riformato le popolari per decreto e lasciato passare il bail-in senza valutarne le conseguenze.
Da ultimo, di certo bene ha fatto lo stesso Consoli a chiedere perché alla fine, di tante banche con i piedi d’argilla, a saltare sono state solo le venete. E perché, fuori dal recinto degli istituti maggiori vigilati da Bce, la «foresta pietrificata» delle piccole popolari con le azioni non quotate, e gli stessi problemi delle venete, da Bari in giù, è invece ancora tutte lì.
E tuttavia va detto che l’unico punto davvero non affrontato dalla commissione è stato quello delle responsabilità delle gestioni nelle banche (magari compresa l’ultima di Atlante, andatasi ad infilare nel vicolo cieco della fusione salvifica tra Vicenza e Montebelluna). Su questo nessuno in commissione ha provato davvero ad incalzare Zonin e Consoli. Rischiando di lasciare il crollo delle due venete di fatto senza spiegazione, a meno di non ricorrere ai consueti adagi della crisi o dei complotti del mercato o dell’Europa per lasciare il Veneto senza banche.
Una linea che dimentica innanzitutto, a sei mesi dal decreto di liquidazione, cos’erano diventate le due ex popolari nell’ultimo periodo: istituti da cui tutti si tenevano alla larga. Che dimentica come il Veneto stesso non abbia mosso un dito, e nemmeno messo la mano al portafoglio, quando si è trattato di dare un segnale di interesse concreto di volersi tenere le due banche. Che dimentica come sia inutile dire che nelle due banche c’erano ancora patrimoni notevoli, se poi questi erano bruciati dalle perdite potenziali sui crediti. Che finge di non capire che se il mercato attribuisce loro valore zero, più che per un complotto è perché non le ritiene più capaci di produrre guadagni. E perché il solo rischio legale potenziale, creato dai contenziosi sulle azioni vendute «taroccando» i questionari Mifid o facendo scavalcare i soci che chiedevano di rivendere, la pesante eredità lasciata dalle vecchie gestioni, valeva da sola 4 miliardi e rendeva Vicenza e Montebelluna inavvicinabili.
Oltre le amnesie sull’ultimo periodo, andrebbe una volta per tutta poi fatta una valutazione onesta su quanto hanno pesato i due nodi-chiave delle gestioni del passato, che hanno mandato in crisi le popolari. Per primo, le perdite sui crediti. Se Popolare Vicenza accumula 4 miliardi di perdite in bilancio negli ultimi tre anni, dopo 4,5 di svalutazioni sui crediti, e Veneto Banca 3,4 dopo 2,2 di svalutazioni, di certo sarà perché la Bce ha stretto troppo i bulloni; ma forse anche perché prima si era esagerato troppo nel mandare la polvere sotto il tappeto. E d’altra parte le case di rating avevano già avvertito per tempo che le coperture sui crediti dubbi erano troppo basse. Il secondo elemento è il prezzo delle azioni non quotate, pompato negli anni e rimasto inalterato in quelli della crisi per mostrare una solidità che non c’era mentre le banche cadevano in Borsa, creando una trappola che si è rivelata letale. Un fronte interno che non si può tralasciare, una volta capiti i gravi errori di contesto e indagato sulla vigilanza.