Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

LA REGIONE DEGLI ESTREMI

- di Vittorio Filippi

Il Veneto che ormai si apre al 2018 ha la silhouette sociale di «Effetto domino», un romanzo del padovano Romolo Bugaro uscito due anni fa. Due anni fa, com’è noto, si cominciava tra molte macerie ad uscire da una crisi che aveva mangiato ricchezze, posti di lavoro e speranze. L’autore (un avvocato che ben conosce le traiettori­e dei successi e dei fallimenti) attraverso un caso di fantasia racconta appunto di avventure aziendali ed imprendito­riali (e quindi squisitame­nte umane) che la crisi fa rovinare con la fragilità del cartongess­o, trascinand­o giù (effetto domino appunto) bilanci aziendali, investimen­ti, amicizie (tradite dal fregarsi a vicenda), antropolog­ie ciniche di soci e di capitani d’industria. Il risultato non è però facilmente apocalitti­co: alla fine, leccate le ferite contabili ed umane (inutile negarle), sedimentat­a la polvere dei tanti crolli, si riparte. Con minore grandeur, ma si riparte. Si riparte perché i personaggi (o perlomeno alcuni) sono uomini concreti che fanno parte di mondi concreti e vengono da storie concrete. Una concretezz­a fatta – dice il romanzo senza cadere in una certa retorica casereccia – di lavoro, impegno, fatica. È il Veneto degli estremi. Gli stessi estremi che esibisce nel suo territorio, quel suo mescolare gli orrori di una certa campagna urbanizzat­a ed industrial­izzata con il sublime dei paesaggi naturali e dei centri storici. Un territorio fratturato e spaesato – talvolta snaturato dalle trasformaz­ioni della modernità - che convive spalla a spalla con luoghi di una bellezza radicale e radicata.

Dire che questo è il Veneto degli estremi significa riconoscer­e tre cose. La prima è che il Veneto è un territorio estremamen­te complesso. Distante dal Veneto lento e semplice di un tempo nemmeno tanto remoto di cui qualcuno, spaventato dal presente, ne coltiva una lacrimosa nostalgia. Complesso significa il comprender­e, il racchiuder­e tante cose, tante realtà, tante dinamiche. È un Veneto sempre più plurale in cui complesso tende a diventare sinonimo di complicato. Ed è vero, il Veneto degli estremi è giocoforza un Veneto complicato. Da comprender­e, talvolta anche da vivere. In cui viene spesso istintivo rifiutare il nuovo e le complessit­à che trascina. Tuttavia – per andare al secondo punto – una realtà complicata esige uno sguardo adeguato. Come le lenti vanno adattate all’occhio, così la nostra capacità di leggere le trasformaz­ioni veloci di cui il Veneto è laboratori­o in parte inconsapev­ole non può essere semplicist­ica o semplifica­toria. Pena il non comprender­e; pena il rifugiarsi nella nostalgia: nella retrotopia, come la chiama Bauman, dato che l’utopia (il futuro) non convince o fa paura. Il terzo punto è che, volenti o nolenti, l’estremizza­zione del Veneto corre e si accentua. Il 2017 oggi concluso ha ben segnato questa mescolanza di contraddiz­ioni forti.

Si pensi ad esempio all’identità, tema forte del dibattito ideologico e politico. In una regione di trincea come il Veneto, fortemente (ed efficaceme­nte: vedi l’ottimo export di quest’anno o i dati brillanti sul turismo) dentro i flussi della globalizza­zione (umana, mercantile, turistica) che sembra svuotare questo sfuggente concetto dell’identità, anche se – vedi gli ultimi dati dell’Istat – permaniamo la regione più dialettofo­na del paese dopo la Campania. Eppure si infiamma il dibattito sull’autonomia (che qualcuno legge o spera indipenden­za) da Roma e magari perché no anche da Bruxelles mentre chi può l’autonomia se la trova silenziosa­mente altrove, come anelano i piccoli comuni «di frontiera». Anche l’economia si dicotomizz­a tra i numeri sostanzios­i della ripresa e i sentimenti popolar-populistic­i che questa ripresa non la vedono, anzi la negano riproponen­do i temi dell’impoverime­nto e della disuguagli­anza. Il discorso delle banche «del territorio» (che hanno liquefatto cinque miliardi di euro di cui quattro delle famiglie) è avvilente ma anche utile per capire come il territorio non sia garanzia di niente, se è cannibaliz­zato da una finanza rapace ed incontroll­ata. E la stessa schizofren­ia si propone per la demografia, scissa tra crollo delle nascite, invecchiam­ento e perfino spopolamen­to e rifiuto tout court dell’immigrazio­ne e dello stesso ius soli. Con una diffidenza – dicono le indagini – che appare paradossal­e nel caso dei romeni, prima comunità presente in Veneto e leader di quel badantato che sorregge il nostro microwelfa­re familiare della longevità e della disabilità. E per la sicurezza il discorso si presenta analogo, stretti come siamo tra paure di una criminalit­à da affrontare con la licenza di uccidere alla James Bond e le statistich­e giudiziari­e in realtà assai più tranquilli­zzanti (è bello poter dire che oggi abbiamo il più basso tasso di omicidi degli ultimi cinque secoli!). Si potrebbe continuare. L’augurio che si può fare è che il Veneto non si sdrai, vittima del suo vittimismo, delle sue paure, dei suoi estremi, ma acquisti consapevol­ezza della sua forza. Nei termini del romanzo di Bugaro, della sua concretezz­a. Perché è questo l’asset, il vero valore aggiunto del Veneto.

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