Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Dopo l’orologio il caso «cuffie» Sindacati e ateneo: patto sul lavoro 4.0
Il caso nella logistica. Klotz (Aspiag): un aiuto
Non solo i braccialetti di Amazon. Dopo gli smartwatch della «padovana» Dab, spunta il caso delle cuffie «intelligenti» che da qualche anno, anche in Veneto, sono costretti ad impiegare gli operatori della grande distribuzione. Si chiama sistema pick-by-voice. I sindacati attaccano. E si invoca con l’ateneo un patto sul lavoro 4.0.
I braccialetti elettronici di Amazon; quindi gli smartwatch della «padovana» Dab. Sistemi di controllo e di supporto ai dipendenti subito bloccati dai lavoratori. La certezza è che si è solo all’inizio: la tecnologia incalza e pone anche il mondo del lavoro di fronte a sfide capitali. I fronti sono molteplici. Oggi spaventano «orologi» e bracciali, perché chi li indossa teme un controllo diretto; ma che dire, per esempio, delle cuffie «intelligenti» che negli ultimi tempi, anche in Veneto, sono costretti ad impiegare gli operatori della grande distribuzione? «Si chiama sistema pickby-voice — denuncia Nicola Zanotto di Adl Cobas Padova — , da noi lo usano ormai tutti, da Aspiag alla Pam. L’operaio, attraverso alcuni speciali auricolari direttamente collegati con il computer, riceve gli ordini da preparare. Alla fine di ogni ordine parte automaticamente il successivo. Abbiamo verificato che in alcuni casi l’azienda controllava la produttività con un uomo piazzato davanti al computer. Mentre in altri casi sono stati assegnati premi proprio sfruttando questo sistema. Siamo intervenuti subito, impedendo che la cosa si ripetesse. Per altro ora chiederemo un’indagine medica sull’impiego di questi apparecchi, che funzionano con batterie e wi-fi. Siamo sicuri che non creino danni alla salute?». Ma le aziende, come nel caso di «Dab», la vedono in maniera opposta. «Non è un controllo, ma un aiuto», spiega Paul Klotz, classe 1966, dal 2000 amministratore delegato di Aspiag (Despar). «Il sistema voice è in grado di indicare esattamente all’operatore l’ubicazione del prodotto, agevolandogli così la ricerca — spiega il manager —. Lei per esempio, dato un certo input, riuscirebbe a capire esattamente quale tipo di uva bianca prelevare dal magazzino? Con le cuffie non occorre nemmeno essere esperti di un certo prodotto. Si segue la voce e stop. Ma ripeto, per noi il capitale più importante resta sempre il dipendente; quindi nessuna volontà di controllo».
Il tema resta, dunque: come coniugare i vantaggi della tecnica con i diritti degli operai (e con la loro privacy)?
«La questione è trasversale, al di là dei singoli dispositivi specifici — afferma Christian Ferrari, segretario regionale Cgil Veneto —. La tecnologia è importante e non siamo tra quelli che pensano o si illudano che si debbano fermare i processi di innovazione. Ma la tecnologia non è neutra, va gestita. È evidente che quando si parla di strumentazioni di lavoro, proprio per evitare che siano surrettiziamente utilizzate per altre ragioni c’è bisogno di un confronto trasparente e aperto; e soprattutto di una contrattazione. La chiave è quella di non lasciare al solo governo unilaterale di impresa l’implementazione dell’innovazione digitale».
Dobbiamo pensare dunque ad un nuovo patto aziende-lavoratori? Nella sostanza, è il punto a cui approda il professor Paolo Gubitta, che insegna Organizzazione aziendale e dirige l’Osservatorio professioni digitali dell’Università di Padova. «Partiamo da una domanda — dice — se l’orologio intelligente fosse al polso del nostro nonno e gli permettesse di prendere regolarmente le medicine noi saremmo altrettanto tristi? No di certo. Sul lavoro però è evidente che il confine tra aumento della tecnologia e sfruttamento è labile. Per cui servono davvero relazioni industriali evolute. Ci vuole, in sostanza, una nuova rivoluzione. E cioè un aggiornamento dello Statuto dei lavoratori, che concepisca una nuova edizione del rapporto tra controllo e autonomia all’interno delle imprese. E che ovviamente tenga conto dell’innovazione tecnologica».