Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Zoran Music Sguardo sull’orrore nei disegni inediti
L’artista dev’essere testimonianza di vita, spiegava Michel Foucault agli studenti del Collége de France soltanto un mese prima di morire. Un testamento spirituale senza alcun dubbio condiviso anche da Zoran Music, segnato – come uomo e come artista – dall’abominio dei campi di concentramento. Era il 1945 quando il pittore (Boccavizza 1909 – Venezia 2005), imprigionato a Dachau, assisteva all’arrivo degli alleati venuti a liberare i sopravvissuti. Costretto in una sorta di quarantena, Music vagava tra le rovine del lager. Un mozzicone di matita in mano, alla ricerca di pezzi di carta: ora la copertina di un libro, ora un foglio sgualcito o una pagina di quaderno.
Music camminava nel campo di concentramento incontrando gli occhi vitrei dei morti, i loro volti contratti, le povere membra. Così Music, guardando negli occhi l’orrore di quei morti, si fece urlo. Testimonianza. «Zoran Music. Occhi vetrificati» è la mostra - curata da Laura Carlini Fanfogna, direttrice del Servizio Civici Musei e Biblioteche del Comune di Trieste - che il Civico Museo Revoltella di Trieste propone fino al 2 aprile. Esposti un nucleo inedito di 24 disegni. Ritrovati grazie a una ricerca del professor Franco Cecotti, vicepresidente dell’Associazione Nazionale Ex Deportati. Erano in una cartella contrassegnata «Disegni campo Dachau», tutti firmati da Music.
Sono volti scarnificati, corpi devastati. Una testimonianza in presa diretta resa ancor più forte da una serie di fotografie che urlano anch’esse di Dachau, di quegli uomini e di quelle donne morti di stenti e di torture; infine accatastati, rovinati al suolo come calcinacci ai piedi della cattedrale dell’orrore. La mostra ripropone anche la nota video intervista che l’artista rilasciò a Giampaolo Penco a Venezia nel 1999, in occasione del suo novantesimo compleanno. Ad ascoltarlo, il pittore, sembra di vivere un incubo. Perché l’orrore era ovunque, non risparmiava nessuno.
L’artista racconta di come le mogli degli alleati si aggirassero tra i morti, quasi fossero allo zoo. E di come un militare, per accontentare la moglie che voleva l’anello di un morto, non esitò a tagliare il dito del cadavere. Davanti a lui. Racconta lo strazio di Dachau, ma è quello che afferma ad essere davvero paralizzante: «Non siamo gli ultimi». Titolo che diede alla serie di lavori che riuscì a realizzare soltanto negli anni ‘70. Non siamo gli ultimi perché «l’orrido è insito nell’uomo», affermava l’artista. E di fronte ai continui scempi e stermini, non possiamo che - tristemente, amaramente - dargli ragione.