Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Il primo voto low-cost, ecco perché è «sparita» la campagna elettorale
Partiti senza soldi, niente rimborsi e una legge elettorale «fake». La prima campagna low-cost, dove i candidati sono scomparsi
Sono le prime elezioni low-cost della storia. Nel senso, non gira un quattrino. E di fatti i candidati sono spariti dalla circolazione. Le ragioni? Una legge elettorale «fake», una campagna troppo corta e un solo collegio contendibile.
Marco Marturano Tempi stretti, è una sorta di blitzkrieg. Solo il M5s ha seguito i tempi della campagna, per gli altri è cominciata 20 giorni fa Michele Cocco Per il digitale non c’è la logica delle campagne Usa, dove si raccolgono i dati per pianificare l’organizzazione Fabio Franceschi Ho messo qualcosa di mio, spontaneamente. Ma devo dire che rispetto a qualche anno fa ora si spente un ventesimo
Almeno Totò/Antonio La Trippa ci provava, tormentando dalla finestra del bagno i vicini di casa: «Vota Antonio!». Oggi invece neanche quello. Zero, o quasi. I candidati alle politiche del prossimo 4 marzo sembrano infatti spariti. Li avrete visti i tabelloni elettorali, che le prefetture hanno piazzato nelle città? Sono praticamente vuoti. Solo raramente, qui e là, appare qualche manifesto; ma in genere si tratta di manifesti di «partito», cioè senza volti, nè nomi. E i messaggi elettorali in televisione, quelli che una volta invadevano la programmazione delle reti private? Una disgrazia. «L’assenza è assoluta», conferma il direttore marketing di uno dei più noti canali del Veneto (non vuole essere citato e un po’ si capisce). «Nella nostra emittente, ma posso parlare anche per la gran parte delle altre che conosco bene — ci dice — il calo delle inserzioni politiche è crollato almeno del 40 percento rispetto alle ultime elezioni, con punte anche più alte. In Veneto ci sono alcuni partiti che hanno totalmente deposto le armi, penso a quelli di centrosinistra. Ma anche nel centrodestra non è tanto diverso: nella nostra televisione, per esempio, passa al 90 percento uno spot con il volto di Salvini; e per l’altro 10 invece uno con il volto di Zaia. E gli altri? Un vuoto pneumatico». E dire che il costo degli spot non sarebbe neanche proibitivo: «Cinquanta, sessanta euro a passaggio — ci spiega il manager dell’emittente tv —, con almeno una decina di passaggi al giorno per una settimana di programmazione». Che facendo due conti fanno meno di 5mila euro. Mica la Luna. «Ma sembra troppo — chiude il direttore —. E glielo dico: ormai tutti noi chiediamo il pagamento in anticipo, perché poi, soprattutto quelli che perdono, chi li vede più?».
Se neanche il web
Qualcuno, tuttavia, potrebbe obiettare: ora c’è il web, i soldi si investono lì. Ma in realtà neanche sul quel fronte la situazione è tanto più rosea. «Non vedo grandi innovazioni, siamo fermi a cinque anni fa — appunta Michele Cocco, che insegna Comunicazione politica all’Università di Padova —. La maggior parte dei candidati intende il digitale semplicemente come un altro canale mediatico, un po’ come la televisione. Non c’è la logica delle campagne americane, oppure quella dell’ultima di Macron in Francia, dove il web è servito soprattutto per rielaborare i big data in funzione di una strategia sul campo». «E inoltre i social nel tempo breve, come quello di questa campagna, hanno un limite — aggiunge Marco Marturano, docente di Giornalismo politico a Milano e vero re Mida delle campagne elettorali con la sua GM&P (sotto la sua ala hanno trionfato da sindaci i vari Zanonato, Cacciari, Manildo, e chi più ne ha più ne metta) —. Cioè, dipende da come il candidato li ha coltivati prima della competizione elettorale. Se non hai in partenza una comunità forte (i «like» per dirla chiaramente), te la devi inventare in modo artificiale, cioè pagando. È una strategia: ma solo fino ad un certo punto». La verità è che, come appare dal quadro tratteggiato, specialmente qui in Veneto (e ora diremo perché) ci troviamo di fronte alla prima vera campagna low-cost della storia.
Le ragioni
fake
A sentire gli esperti, le ragioni sarebbero essenzialmente tre. La prima: la legge elettorale. «Una legge — come la definisce Cocco —, apparentemente maggioritaria, ma in sostanza proporzionale, dove il collegio non è un vero collegio e non ci sono le preferenze». Per cui la vera sfida, i candidati se la sono giocata in quei due-tre giorni in cui le varie segreterie o i «capi» hanno formato i listini. «Per altro, ad eccezione del M5s, che in realtà hanno seguito un copione da manuale o da Pd veltroniano (lasciamo stare se efficacie o meno), la campagna è iniziata per tutti solo da 20 giorni — spiega Marturano —. Una sorta di blitzkrieg. Se vedevate i messaggi che, nei giorni clou, mi mandavano certi politici/clienti, mi veniva da ridere: anche alcuni che erano vicinissimi al loro leader, e per vicinissimi intendo distanti fisicamente mezzo metro, fino all’ultimo erano incerti su dove sarebbero finiti e quindi su che tipo di campagna avrebbero dovuto fare. Alcuni ballavano dal maggioritario uninominale alla Camera, in un collegio sicuro, al proporzionale al Senato in posizione di retrovia. E da una Regione all’altra. Capisce che cambia tutto, compreso il preventivo?». Ed ecco la seconda ragione: i partiti. Che poi sarebbe meglio dire: i partiti senza soldi. «La Lega ha avuto i conti bloccati dal giudice, Forza Italia segue la crisi della casa madre, il Pd ha i dipendenti in cassa integrazione e inoltre si è dissanguato nel 2016 per il referendum costituzionale — spiega ancora Marturano —. Anche se il vero tema è quello dei rimborsi elettorali. Da quest’anno, infatti, grazie a una delle tante riforme fatte da Renzi senza incassare un consenso che sia uno, i partiti non avranno indietro alcun rimborso. Berlusconi nel 2001 spese 10 miliardi di lire, ma poi quei soldi gli tornarono quasi tutti. Da quest’anno non sarà possibile, per cui saranno tutti vuoti a perdere». In questo senso perciò i partiti non disdegnano i candidati auto-sufficienti: «Vedi nelle recenti amministrative i casi di Brugnaro e Giordani», chiosa Marturano. Oppure, per questa tornata, dell’imprenditore padovano Fabio Franceschi, il re degli stampatori, in corsa con Forza Italia. Il quale infatti a noi conferma: «Ho messo qualcosa di mio, sì, ma a titolo spontaneo. Ed è un ventesimo di quello che si spendeva una volta per le campagne elettorali». E arriviamo quindi all’ultima ragione: le aspettative. Punto che coinvolge il nostro territorio più di ogni altro: «Il Veneto ha praticamente tutti i collegi uninominali non contendibili, tranne quello di Venezia — sottolinea Cocco —, significa cioè che per i sondaggi le partite sono già tutte chiuse». Cosa che, in definitiva, ha portato i candidati a dire: ma chi me lo fa fare?