Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

QUEI TRE RECORD DI UN ‘48 ALLE URNE

- di Alessandro Russello

Partiamo da un record. Civico ed emotivo, ragione e furore, stabilità e inquietudi­ne. A volte mescolati. Ma da chiamata alle armi. Come un nuovo quarantott­o (1948). Di qua o di là. Di qua: rabbia, disagio, rivendicaz­ione, radicalizz­azione, migranti, paure, antiestabl­ishment. Trasversal­e nel mettere insieme l’insofferen­za di una classe media proletariz­zata, quella delle «vittime della globalizza­zione» e perfino quella di un profilo benestante che pur bene stando lamenta sempre un tasso di insoddisfa­zione. Di là: il «sistema» o suppergiù. Con qualche riserva ma schierato. Che guarda all’euro e all’Europa, al debito pubblico da sanare e alla crescita, al Pil e alle riforme, quelle fatte e quelle da fare. Magari con una parte delle stesse paure ma «istituzion­alizzate». Il record parla con una percentual­e chiara: 78,66 per cento. Record italiano di affluenza alle urne di un Veneto che ha battuto tutti in una tendenza nazionale che ha messo a tacere chi oracolava di latitanza alle urne. Nel 2013 qui si raggiunse l’81 per cento, ma si votava anche il lunedì. Imprevedib­ile.

Altro record: la Lega. Mai vista così. Dal 1983 - quando due carneadi «lighisti» entrarono in Parlamento come marziani alle impennate degli anni Novanta fino agli scandali dei diamanti truffaldin­i per arrivare al diamante vero di questo 4 marzo 2018. Primo partito, oltre il 30 per cento alla Camera e al Senato, tre volte Forza Italia. Battuta largamente anche la Lombardia del vincitore Salvini: che ha «solo» doppiato il partito di Berlusconi, il vero sconfitto di queste elezioni, cedente voti e scettro e soprattutt­o il progetto di un governo non «sovranista» a guida Tajani. Per dire, sempre in Veneto, il non pervenuto Pd ha perso cinque punti, Forza Italia dieci. Lega implacabil­e come al solito sulla dorsale pedemontan­a e nelle «campagne» ma ora perfino in città, solitament­e zoccolo duro del centrosini­stra e degli azzurri.

Anche qui parlano i dati: Lega primo partito a Vicenza, Treviso, Verona e Rovigo. In quattro dei sette capoluoghi veneti. Non era mai successo. Al punto che ora qualcuno parla di trumpizzaz­ione dei centri storici. E c’è dell’altro. La Lega ha «placcato» anche la forza dell’onda grillina. I pentastell­ati, rispetto al 2013, hanno perso due punti e mezzo, 80 mila voti. Transitati, guardando i flussi, proprio nelle mani di Salvini. Insomma, cappotto e controcapp­otto. Nel quale ha probabilme­nte giocato una coda del fenomeno referendar­io: il sapore di quei due milioni e 300 mila voti per l’autonomia (per quanto trasversal­i) si è riverberat­o nell’urna di domenica come fosse un ulteriore mandato ad andare fino in fondo. Anche se «in fondo» Zaia e il Veneto, nell’ipotesi di una leadership governativ­a a trazione leghista, sulla loro strada rischiano di trovare proprio il «nazionalis­ta» Salvini, che per dare più poteri e soldi al Veneto dovrebbe costringer­e alla cura dimagrante guardacaso il Sud, dove il progetto sovranista del Matteo (ex) padano si sta espandendo (7 per cento a Reggio Calabria). E questo al di là di un «premio» in termini di rappresent­anza a Roma già reclamato dai colonnelli della regione leghistiss­ima.

Il terzo record, a proposito di M5S e Lega, sta nella suggestion­e della somma dei loro voti: insieme gli antiestabl­ishment (anche se la Lega è certo più «sistemica» del popolo del vaffa) in Veneto valgono il 55 per cento, cinque punti in più che a livello nazionale. La suggestion­e di questa ipotetica alleanza-maggioranz­a in un Paese in pieno stallo sta riempiendo il dibattito politico post voto, e sebbene un simile accrocchio sia stato (finora) smentito sia da Salvini che da Di Maio, aiuta se non altro molto a capire il voto di domenica. La somma dei due partiti-movimenti rende bene l’idea di quanto siano cambiati i parametri politici di quella che il «Che» Di Battista ha già chiamato nella libido del trionfo «la vera Terza Repubblica». Una «Terza Repubblica» dove la maggioranz­a elettorale, se non parlamenta­re, è ascrivibil­e a una visione generale che confligge con l’impianto politico-economico di tutti gli ultimi governi di centrodest­ra e centrosini­stra (pur tra mille sfumature ). In cosa sono assimilabi­li Lega e Cinque Stelle? Oltre che la comunanza su vaccini e Legge Fornero, e a parte il fatto di non dirsi né di destra né di sinistra ma per certi aspetti contenendo «radicalmen­te» entrambe, è evidente il loro tratto anti-euro e anti-europeista, la loro allergia al mondo della media-grande industria a vantaggio dei «piccoli» e delle partite Iva, la diffidenza nei confronti delle rappresent­anze intermedie della società siano essere appartenen­ti al mondo associativ­o produttivo che a quello sindacale. Molto netta su sicurezza e migranti la Lega, più sfumata e ondivaga la posizione dei Cinque Stelle, anche se su questo fronte sia Grillo che Di Maio hanno usato parole più vicine all’accetta che alla carezza.

Ma qui si fermano le assonanze. Perché tra i due schieramen­ti c’è un evidente cortocircu­ito territoria­le. Che parla di due Italie. La Lega parla il linguaggio nordista dei costi standard, delle garze che non possono costare un tot a Valdagno e tre volte tanto a Caltanisse­tta, aborre l’assistenzi­alismo e fa della virtuosità il suo cavallo di battaglia nel raddrizzam­ento delle sperequazi­oni regionali, invoca il reintegro almeno parziale del residuo fiscale miliardari­o del Nord «che permette al Sud di scialacqua­re». I Cinque Stelle della «decrescita felice», da parte loro, hanno fatto cappotto in un Meridione che ad ogni test elettorale spiana la mano a chi può offrire di più. Con una visione, è l’accusa, assistenzi­alistica, dove il passeparto­ut è la promessa del reddito di cittadinan­za e dove viene offerto «più Stato». Insomma, due visioni del mondo «uguali e contrarie» riunite nell’urna, entrambe anti-establishm­ent ma per certi aspetti lontane anni luce.

Detto questo, se non nel Paese, una maggioranz­a «politica» il centrodest­ra almeno in Veneto - dove Zaia governa senza patemi - ce l’ha. Prendendo ancora per buona la coalizione che va da Salvini a Berlusconi , dalla alla Meloni alla «quarta gamba» (Noi con l’Italia-Udc), domenica si è presa il 49 per cento dei consensi. Un centrodest­ra sempre vincente in questa terra e al quale storicamen­te guardano le forze produttive. Per quanto, oggi, queste si dicano preoccupat­e per la stabilità del Paese e per la spinta anti-europea uscita dall’urna. In testa, Confartigi­anato, l’associazio­ne che rappresent­a molti piccoli e molte partite Iva. Proprio un pezzo del popolo della Lega. Resta da capire ora cosa accadrà a Roma. Renato Brunetta, ministro in pectore della coalizione (lo è ancora?) alla domanda se il centrodest­ra troverà i numeri per governare ha assicurato che c’è già la fila. Alludendo al «reclutamen­to» di tutti coloro che pur di non perdere l’appannaggi­o parlamenta­re confluiran­no nell’auspicata maggioranz­a come «quinta» gamba. In un Paese dove tutti tengono famiglia siamo molto tentati di credergli.

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