Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

Ex venete, sessantami­la prestiti rischiosi. Sparito il miliardo per i creditori

- di Federico Nicoletti

Ex popolari, sono 60 mila le posizioni legate a crediti ad alto rischio che Intesa ha accettato di gestire. Intanto il miliardo in più promesso dieci mesi fa dallo Stato ai creditori della liquidazio­ne non c’è più. Si fa sempre meno ottimistic­o, rispetto al punto di partenza, il 25 giugno 2017, il quadro della gestione di ciò che resta delle venete.a

Ex popolari, sono 60 VENEZIA mila le posizioni legate a crediti ad alto rischio che gestirà Intesa. E intanto il miliardo in più promesso dallo Stato ai creditori delle liquidazio­ni già non c’è più. Si precisa, e si fa via via meno ottimistic­o rispetto alla partenza del 25 giugno 2017, il quadro della gestione di quel che resta di Bpvi e Veneto Banca. L’ulteriore aggiorname­nto esce dagli accordi che i commissari delle due banche e Intesa Sanpaolo hanno firmato dopo la chiusura della due diligence, che ha fissato il perimetro definitivo della parte delle due venete trasferite ad Intesa.

E l’accordo firmato il 17 gennaio, chiamato «Atto ripetitivo dell’atto ricognitiv­o», quantifica in 4,522 miliardi di euro i crediti in bonis ad alto rischio, ovvero con alta probabilit­à di default. Cinquecent­o milioni in più rispetto ai conti di dieci mesi fa, dopo che 284 milioni sono già stati scaricati come sofferenze alle liquidazio­ni. D’altra parte, come dice l’accordo firmato tra le parti, «le procedure delle ex Banche venete non avevano sistemi e processi di rating che consentiss­ero di aggiornare appieno la rischiosit­à delle contropart­i». Con il risultato di mantenere in bonis «un consistent­e novero di esposizion­i classifica­bili come deteriorat­e (come rilevato anche dal collegio degli esperti)».

Oltretutto sul conto finale grava un dubbio rilevante: la revisione dei crediti è fatta dalla due diligence a campione, non analizzand­o le posizioni una per una. E quindi resta da vedere quanto di quei 4,5 miliardi finirà poi in default e retrocesso alle liquidazio­ni. Con ulteriori elementi rilevanti. Per esempio sulle «baciate», che l’accordo fissa verranno trasferite tra i crediti ad Intesa, se i prestiti concessi per comprare le azioni si possono valutare ad alto rischio.

«Abbiamo concluso la due diligence sulle venete. Non abbiamo trovato sorprese rispetto a quanto era stato dichiarato», ha tirato le somme sulla vicenda giusto giovedì l’amministra­tore delegato di Intesa, Carlo Messina.

E in effetti i problemi stanno su altri tavoli. Intanto, retrospett­ivamente, sulla qualità del credito. Perché la liquidazio­ne e il passaggio a Intesa delle ex venete equivale anche a rivalutare, con i criteri ben più stringenti della prima banca italiana, anche la qualità del credito delle due banche venete. Il quadro è semplice. Se si mettono i crediti i bonis ad alto rischio, visto i dubbi che sollevano sulla loro tenuta di fronte ad un’analisi ancora fatta a campione, tra i deteriorat­i, per Intesa - facendo riferiment­o ancora ai dati di giugno 2017 (e le cose da allora possono essere solo peggiorate), i crediti davvero in

bonis delle due venete erano 26 miliardi su 40, il 65% del totale. Se si torna indietro anche solo ai dati con cui le due ex popolari si erano presentati per la fallita quotazione in Borsa due anni fa, i crediti classifica­ti in bonis, facendo la somma tra le due, erano 37 miliardi su 54.

La domanda a questo punto è semplice: com’è possibile che tra le due valutazion­i ballino 11 miliardi? E questo dopo che, dagli stress test 2014, Bce sia passata con tre ispezioni nelle due banche e che le ex popolari abbiano rivisto in casa due volte i crediti, per la quotazione del 2016 e poi, a inizio 2017, con la riclassifi­cazione per costituire i veicoli «Ambra» e «Flaminia» in vista della cartolariz­zazione delle sofferenze? E se le differenze sono così marcate, sono sballati per difetto i dati iniziali o esagerati i finali?

E ancora: la responsabi­lità della differenza a chi va attribuita? Alle gestioni ZoninConso­li, a quelle intermedie Iorio-Carrus sotto l’egida di Bce o alle finali di Atlante? O in che misura vanno ripartite?

E poi tornano in mente le parole del dominus di Quaestio e del Fondo Atlante, Alessandro Penati, sulle venete paragonate a film dell’orrore, con il sospetto che i conti per la quotazione fossero già sballati. Ma allora come mai alla fine della giostra, dopo la due

diligence, Intesa ha pagato senza tante domande 80 milioni di fatture insolute ai fornitori delle due venete, una buona fetta della quale andata a tanti consulenti e studi di legali e revisori?

E poi c’è l’ultima cattiva notizia, che riguarda i soci. Dopo lo stop alle cause ad Intesa per decreto, e il trasferime­nto del processo Veneto Banca a Treviso, che potrebbe bloccare anche la via penale per i risarcimen­ti, ora la terza tegola arriva per la liquidazio­ne. Dal bilancio 2017 di Intesa Sanpaolo s’apprende che il debito dello Stato verso il colosso bancario (tradottosi in un prestito che Intesa fa alle liquidazio­ni) è salito dai 5,4 miliardi originari agli attuali 6,4. Giusto quel miliardo in più che lo Stato prevedeva di far saltar fuori dalla gestione delle liquidazio­ni, dopo aver recuperato per sé i fondi statali dati ad Intesa. Come dire, quindi, che i soldi che dovevano andare ai creditori non ci sono già più. Intanto liquidazio­ni e Intesa hanno convenuto che gli interessi maturati dalla banca tra luglio e dicembre 2017 sui finanziame­nti alle Lca sono 32 milioni di euro. Destinati, a questo punto, a lievitare ancora nel 2018.

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