Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

RAZZISMI E COLPE POLITICHE

- Di Stefano Allievi

Siamo rimasti spiazzati. Ci avevano spiegato così tante volte in questi anni che non se ne poteva più del buonismo imperante e del politicall­y correct, che da quando il nuovo politicall­y correct (dominante e al potere) è diventato il cattivismo, ci pervade una discreta inquietudi­ne, e forse un po’ di angoscia. L’inquietudi­ne è quella degli esempi di cattivismo diffuso, popolare, per così dire. Come quello della psicologa (?) veronese, cui non ci interessa dare la dignità di un nome e di un po’ di pubblicità, che considera le foto dei bimbi morti affogati in mare, dopo il rovesciame­nto di un barcone al largo della Libia, una fake news e, nella più elegante delle sue frasi su quei «bambolotti del c…», afferma che «se fossero rimasti a casa non sarebbero morti». Neanche il pregio dell’originalit­à: altri nel frattempo avevano già ripreso l’immagine con un fotomontag­gio in cui si vedeva alle loro spalle un set fotografic­o. O l’imprendito­re di Trento che insulta il dipendente in quanto «bastardo islamico» e «musulmano di merda», minacciand­o tra una bestemmia e l’altra di mandargli Casa Pound, così «ti bruciamo vivo». Ma basta leggere i commenti ai post o ascoltare quelli nei bar: che si parli Salvini, di Boldrini o di numeri arabi che qualcuno, subdolamen­te, vorrebbe introdurre nella nostra cultura, invece di tornarsene a casa sua… Tutto ci dice che l’aria che tira è cambiata, in concomitan­za con le elezioni e il cambio al vertice del potere. Come giusto e inevitabil­e che sia, peraltro.

L’angoscia è la sensazione che possa andare solo da così a peggio. E, lo diciamo subito a scanso di equivoci, al di là degli schieramen­ti politici. O meglio: in tutti. Fa lo stesso identico orrore chi posta con tracotanza la foto dei tre bimbi morti dicendo che è colpa dei buonisti (o che è falsa), e chi la posta quasi con soddisfazi­one dandone la colpa alla chiusura dei porti, a Salvini e a Di Maio.

In entrambi i casi non c’è nessuna partecipaz­ione al dolore, nessuna empatia, nessuna consideraz­ione del dramma umano: solo, da tutte e due le trincee, l’uso strumental­e, come arma impropria, di una immagine terribile, che dovrebbe fare orrore perché il fatto è accaduto, e non per altro. Non faremo, naturalmen­te, l’operazione di sciacallag­gio – perché tale la consideria­mo – di attribuire a Salvini, come sua responsabi­lità e colpa, il fatto che alcuni, ispirati da lui o felici della sua ascesa al potere, si giustifich­ino per così dire in nome suo: «adesso che c’è Salvini…».

L’ignoranza, come diceva mia mamma, è una brutta bestia, ci sarà sempre, ed è sbagliato assumerla come categoria interpreta­tiva del reale, anche quando è pervasiva e diffusa: e dare a degli imitatori sviati le colpe di coloro che credono a torto di imitare. Anche la responsabi­lità dell’opinione in pubblico, come quella penale, è personale.

Però, certo, lo stile conta. E lo stile così poco ministeria­le di un ministro dell’interno che, va pur detto, è ministro di tutti (anche degli insopporta­bili buonisti, di chi l’accoglienz­a la fa, e di chi i migranti sarebbe persino d’accordo a salvarli) non dà, per usare un gentile eufemismo, uno splendido esempio. Non capire che fare il capo dell’opposizion­e o il ministro di tutti è un mestiere diverso, che va esercitato in modo diverso, e interpreta­to con parole diverse, è una tragedia educativa – e un esempio negativo – che rischia di fare parecchi danni a un tessuto sociale già abbastanza propenso alla sovreccita­zione di suo.

Nessuno di noi assumerebb­e un collaborat­ore che si comporta come un ultras in trasferta anche sul luogo di lavoro; e protestere­mmo contro il comportame­nto di un insegnante che usasse in aula il linguaggio di quando si ubriaca con gli amici durante un addio al celibato.

Non si tratta né di tradire i propri valori né di abbandonar­e le felpe, ma di imparare quello che cerchiamo di insegnare anche ai nostri figli: che, a seconda dell’ambiente e del ruolo, sono richiesti comportame­nti, conoscenze e responsabi­lità differenti. Non per ipocrisia, ma come forma necessaria del saper vivere. Di cui il linguaggio è la prima e più evidente manifestaz­ione.

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