Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
MEDICI IN TRINCEA
Sei su dieci quotidianamente vittime di aggressioni da parte di pazienti e familiari. «Che inferno, difficile lavorare così»
Èil 30 dicembre 2017 quando, all’ospedale De Gironcoli di Conegliano, una guardia medica viene aggredita e colpita da una coppia che cerca di sfondare la porta dell’ambulatorio. Due settimane dopo la dottoressa, trentenne, si dimette perché lo choc subìto non le consente più di lavorare con serenità e nemmeno di dormire. La stessa paura provata il 19 giugno scorso dai colleghi del Pronto Soccorso di Padova, minacciati con violenza da un cinese in crisi psicotica, che scarica la sua rabbia scardinando la porta dell’area rossa e poi picchiando i due poliziotti riusciti a bloccarlo. E che dire del camice bianco preso a pugni, lo scorso febbraio all’ospedale di Legnago, da un paziente che non voleva affrontare la semplice misurazione della pressione prima di essere dimesso? Succede tutti i giorni ai veri medici in prima linea, che non sono i perfetti «E.R.» senza un capello fuori posto alla George Clooney ma dottori quotidianamente in trincea, a combattere la malattia e pure l’esasperazione e la maleducazione crescente di pazienti e familiari, che sempre più spesso scaricano ansia e frustrazioni aggredendo, insultando, minacciando e picchiando le uniche persone in grado di salvarci la vita.
L’escalation
L’Anaao Assomed, sigla degli ospedalieri, ha per la prima volta inquadrato il fenomeno, distribuendo un questionario a tutti i colleghi in corsia, che nel Veneto sono 9150 (compresi i 600 universitari). Ne è emerso che il 65% è stato vittima, almeno una volta, di aggressioni: di questi, il 66% ha subìto attacchi verbali e il 33% fisici, finiti con una prognosi compresa fra 3 e 100 giorni. Ma la percentuale del 65% sale all’82% per i dottori del Pronto Soccorso, il reparto più a rischio insieme a Psichiatria, Sert, Suem 118, Medicina interna, Chirurgia generale, Ginecologia, Pediatria, Pneumologia, Malattie infettive, Anestesia e Rianimazione. Eppure meno del 10% dei medici si rivolge alla legge: le denunce sono 500/600 all’anno, contro le 1300 presentate dai malati per presunti errori medici. «Denunciare il paziente è contrario all’etica professionale — spiega Pasquale Santoriello, chirurgo ortopedico e segretario Anaao all’Usl 2 Marca Trevigiana — perché il rapporto è impari. Faccio questo mestiere da 25 anni e non ho mai vissuto una situazione del genere: siamo in mezzo al fronte. Attaccati a destra dall’utenza e a sinistra dalle nostre aziende, che ci dovrebbero difendere e invece sono insofferenti. Siamo considerati una categoria privilegiata, che guadagna un sacco di soldi: la realtà è un’altra. Siamo in crisi. Negli ospedali c’è un clima da caserma, il primario è sotto ricatto del direttore generale perchè ha un contratto di cinque anni, che ora la Regione sta riducendo a tre. E allora per essere riconfermati i primari vessano e mortificano i collaboratori, li costringono a stimbrare il cartellino al termine dell’orario indicato per legge e a restare al lavoro. Così si coprono fino a 14 ore al giorno, per sopperire al sottorganico e in violazione alla normativa europea che ne impone 40 settimanali, comprese le chiamate di reperibilità. Un fenomeno molto frequente ma non documentabile — aggiunge Santoriello — perchè nessuno ammette di aver stimbrato per paura di ritorsioni. Puoi essere demansionato: per esempio un chirurgo rischia di non operare più o di farlo la sera invece della mattina, ad altri colleghi tolgono le ferie all’ultimo momento».
Le vessazioni
Due mesi fa a una dottoressa è stato negato il permesso per malattia del figlio, colpito da bronchiolite. Il pediatra ha prescritto tre giorni di prognosi, ma lei è stata messa in turno, altrimenti rischiava il declassamento degli scatti di anzianità. Un ex primario di Anestesia di un ospedale trevigiano dalla sera alla mattina ha perso il Dipartimento perchè ha ricevuto l’ordine di attivare il parto in analgesia e ha risposto che sarebbero serviti altri due anestesisti. Il dg ha detto no, usa le risorse che hai, e alle perplessità del primario ha risposto togliendogli la direzione del reparto. «In un’atmosfera simile il rapporto medico-paziente è messo a dura prova — avverte Santoriello — il superlavoro ci impedisce di dedicare alla gente il giusto tempo. E le disposizioni interne non aiutano: il nuovo piano di lavoro impone una gastroscopia ogni 20 minuti, quando le linee guida ne prevedono almeno 30; un ginecologo di Treviso è rimasto al lavoro 20 giorni di seguito, senza riposi nemmeno di domenica; gli anestesisti per la difficoltà estiva di essere sostituiti stanno coprendo in tanti ospedali 60 ore a settimana. Uno di loro, ancora in sala operatoria alle dieci di sera, ha ammesso: io, se fossi un paziente, avrei difficoltà a farmi operare da noi. Condizioni che aumentano le possibilità di errore, ne va della sicurezza del paziente e del medico, gli utenti si arrabbiano e la tensione cresce, impedendoci di lavorare al meglio».
La rabbia dei pazienti
I motivi del malessere dei malati sono dunque: la visita sbrigativa per insufficienza di operatori, percepita come prestazione affrettata e grave fonte di stress per il medico; le attese, considerate sempre eccessive da chi ha male e pretende di essere visitato subito; la diffidenza. Oggi i pazienti vogliono capire e avere voce in capitolo sulle cure, mettendo in discussione il dottore. «In passato erano passivi — conferma Giovanni Leoni, presidente della Cimo Veneto e chirurgo generale a Mestre — ora sono collaborativi, ma anche nel senso meno positivo del termine. Oggi ci sono il professor Google e i Social, che hanno introdotto una nuova mentalità, spesso difficile da scardinare: se un concetto viene ripetuto all’infinito da un certo numero di persone, è la verità. E ciò crea aspettative non realistiche, situazioni contingenti che per ignoranza o malafede usano la salute per scopi estranei alla sanità, magari politici. Generano scelte di pancia e conflittualità». Leoni a inizio carriera ha lavorato in un Pronto soccorso: «Nessuno può capire cosa significhi fare il medico se non ha mai prestato servizio nell’urgenza-emergenza. L’attesa dev’essere commisurata alla necessità, se uno ha male e aspetta troppo si agita. E quando la gente si esaspera mette le mani addosso all’operatore, che di conseguenza sotto pressio-
ne fa male il suo mestiere. Ricordo una mattina lo scontro tra una famigliola e un tossicodipendente, che al culmine della rabbia si è strappato la flebo dal braccio insanguinando il reparto e mettendolo a ferro e a fuoco, finchè è stato immobilizzato dalla polizia. Ma ricordo anche i Natali e i Capodanni festeggiati al Pronto Soccorso con i panettoni portati dalla polizia stradale — rievoca Leoni — come noi sempre in prima linea. Il rapporto diretto con chi soffre è alla base della medicina ma non è facile sviluppare empatia col paziente e nello stesso tempo bloccare l’emotività, per restare lucidi e professionali. Dobbiamo mantenere i nervi saldi, ma se non siamo messi nelle migliori condizioni di lavoro, per carenze organizzative e di personale, diventa difficile».
Le pretese
E’ d’accordo Massimiliano Zaramella, chirurgo al San Bortolo di Vicenza e presidente di Obiettivo Ippocrate, associazione nata proprio per recuperare l’alleanza terapeutica medico-paziente: «Il fenomeno delle aggressioni è in crescita da 15 anni, le carenze organizzative hanno minato la fiducia tra dottore, ammalato e familiari. Minato da un punto di vista culturale, si è perso il concetto chiave che il diritto sancito dalla legge è alle migliori cure, non alla salute. E invece è stato fatto passare un messaggio miracolistico, di onnipotenza, che raffigura il camice bianco come un guaritore, uno stregone quasi. E quindi l’idea della morte o della terapia che non funziona è respinto a priori. E poi è cambiato il principio di salute: una volta significava assenza di malattia, adesso allarga il ruolo del medico a una componente sociale, familiare e ambientale. E’ un compito più complesso — incalza Zaramella — non basta più trattare la malattia, spesso la componente umana e sociale di un paziente, magari da solo e non in grado di tornare a casa benché non più nella fase acuta, è prioritaria. E allora per recuperare l’alleanza terapeutica bisogna trovare lo spazio per parlare. Se invece sale l’atmosfera di diffidenza e conflittualità, le storie a lieto fine saranno sempre meno».
Le tutele
Ma chi difende i medici? I sindacati hanno chiesto vigilantes, telecamere, allarmi, porte blindate e l’assessore alla Sanità, Luca Coletto, ha promesso una delibera che vada in questa direzione. Intanto la giunta Zaia ne ha approvata un’altra che tali misure di sicurezza prevede già per le guardie mediche, più a rischio perchè all’opera di notte, da sole e in ambulatori isolati. L’Usl 4 di San Donà ha dotato i dottori di fischietti, mentre all’Usl 1 di Belluno è partito un corso di autodifesa.
” L’ortopedico Siamo attaccati a destra dall’utenza e a sinistra dalle aziende, che ci sfruttano
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Il chirurgo Motivi della rabbia visite sbrigative, attese e diffidenza nei confronti delle cure