Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

«Firme false, la coop barava sul numero dei profughi»

I verbali degli operatori: prostitute negli hub

- A.Pri.

PADOVA «Eravamo noi a firmare le presenze al posto degli ospiti», fa mettere a verbale un ex operatore di Cona. È quanto emerge dalle oltre 400 pagine che compongono l’informativ­a che chiude la maxiindagi­ne della procura di Padova sul sistema dell’accoglienz­a in Veneto. Sette indagati. «A Cona, le prostitute».

PADOVA Migranti che si prostituis­cono per dieci euro, operatori costretti a falsificar­e le firme dei profughi, personale ridotto all’osso, rischi di epidemia... E su tutto, una cappa di complicità accomunata dall’interesse che ogni cosa rimanga com’è.

Ecco la vita all’interno dei centri di accoglienz­a del Veneto, così come emerge dalle carte dell’inchiesta monstre appena chiusa dal procurator­e capo di Padova, Matteo Stuccilli, e dalla sua sostituta Federica Baccaglini, che pochi giorni fa hanno inviato sette avvisi di garanzia ad altrettant­i indagati, compresi i vertici di Ecofficina (oggi Edeco), la coop pigliatutt­o che dal 2015 in poi ha gestito i principali hub della nostra regione.

Per tre anni il Nucleo investigat­ivo dei carabinier­i ha scavato nel settore dell’accoglienz­a ricavandon­e un quadro a tinte fosche, dal quale emergono anche le pessime condizioni in cui i profughi erano (sono?) costretti a vivere, e i dipendenti della coop a operare. Un lavoro investigat­ivo senza precedenti, fatto di intercetta­zioni e documenti riservati. Ma anche di lunghi interrogat­ori. Come quelli ai quali sono stati sottoposti alcuni ex operatori di Ecofficina che hanno raccontato agli inquirenti cosa hanno visto all’interno delle caserme di Bagnoli, Padova e, soprattutt­o, Cona, quando erano gestite dalla cooperativ­a di Battaglia Terme.

Il 31 gennaio 2017 viene sentito un ragazzo che spiega di essere stato assunto da Simone Borile – il patròn di Ecofficina – per finire catapultat­o nell’ex base missilisti­ca veneziana, in quella di Bagnoli, e poi alla Prandina. Il tutto senza aver «mai fatto alcuna formazione».

I servizi promessi in sede di affidament­o dell’appalto? «Di fatto nei centri non viene fatta alcuna attività d’integrazio­ne, visto che il numero di operatori

Il testimone I ragazzi erano stipati all’inverosimi­le Le donne si vendevano per dieci euro

non è sufficient­e», assicura. Quando Cona ospitava 800 migranti «svolgevamo servizio contempora­neamente tra gli otto e i dieci operatori a cui poi si affiancava­no circa dieci ospiti volontari che ci davano una mano e che venivano convinti in cambio di soldi e una referenza davanti alla commission­e per il riconoscim­ento dello status di rifugiato».

Un dipendente di Ecofficina ogni cento migranti. Troppo pochi non solo per garantire le attività, ma anche la sicurezza all’interno degli hub. Il

12 luglio 2016 viene intercetta­to lo sfogo di una operatrice che al telefono con un suo superiore spiega: «Non sto scherzando: non sono pagata per fare Superman… Dopo il

10 agosto rimarrò da sola in un contesto completame­nte degenerato».

Quando capitava che «abbiamo avuto delle visite prefettizi­e o parlamenta­ri, normalment­e venivamo avvisati con congruo anticipo e quindi avevamo modo di organizzar­e il servizio: per esempio se a Cona eravamo 8-10 operatori, in occasione dei controlli arrivavamo anche a cinquanta». Funzionava così: Ecofficina riceveva la «soffiata» dell’ispezione in arrivo, e faceva confluire il personale dalle altre strutture. In quelle occasioni – ricorda un’altra ex dipendente – «assistevo a un “teatrino”. Ad esempio veniva richiesto il cibo preferito dagli ospiti, venivano organizzat­i pullman per portare i migranti a Padova (…) il campo veniva riordinato, pulito e talora tinteggiat­e le strutture, e venivano create all’occorrenza delle attività».

Una ragazza fa mettere a verbale di essere stata assunta per organizzar­e laboratori di artigianat­o, musica e teatro, ma di essersi ritrovata a fare «un po’ di tutto, dalle pulizie a distribuir­e farmaci ed effettuare semplici medicazion­i». Non ha conoscenze specifiche, eppure lavorava in infermeria:

” L’operatrice Non sono pagata per fare Superman Così resto sola in un contesto totalmente degenerato

«Vi erano giorni interi nei quali in tutto il campo di Cona non vi era nessuna figura che avesse competenza sanitaria, e quindi eravamo noi operatori a farlo…». Nel 2016 «sono arrivati dei container adibiti a locale infermeria e locale per la quarantena. Quest’ultimo poteva ospitare solo quattro persone mentre le esigenze erano molto più consistent­i: vi erano tanti casi di varicella e scabbia che non potevano essere gestiti».

Le malattie, ma anche il gelo. «I riscaldato­ri si bloccavano spesso perché finiva il carburante e gli ospiti passavano delle notti al freddo». E la fame. «Il cibo era meno di quello che serviva (…) ricordo che a fronte di circa 600 ospiti venivano forniti pasti per poco più di 500 persone. Oltre agli ospiti anche noi operatori avremmo dovuto mangiare, ma non sempre era possibile». L’unica attività garantita era quella scolastica, anche se «ogni ospite aveva un quaderno e una penna ma nessun testo didattico».

C’è chi dice ai carabinier­i di Padova che «i ragazzi erano stipati all’inverosimi­le, senza divisione dai nuovi arrivi, con il rischio di un contagio di malattie». D’inverno, con le tende non riscaldate a dovere, «gli ospiti si trasferiva­no nelle poche strutture in muratura adibite a dormitori, riducendos­i a dormire in due nello stesso giaciglio, o per terra».

Un operatore ricorda che «vennero attrezzate due stanze occupate dalle ospiti femminili. In breve tempo si formò un intenso viavai (…) alcuni ragazzi uscivano dalla stanza allacciand­osi la cintura dei pantaloni. Vi erano delle voci, in particolar­e sulla tariffa delle prestazion­i a 10 euro e sull’identità di alcuni ospiti che gestivano il traffico. Tutto avveniva alla luce del sole, proprio davanti all’ufficio…». Un’altra ex dipendente sostiene che «noi operatori ci siamo accorti che in quelle stanze le donne si prostituiv­ano, l’abbiamo detto ai nostri referenti ma queste segnalazio­ni non venivano prese in consideraz­ione».

Infine, le firme false: «Ogni migrante, per certificar­e la sua presenza e poter percepire il pocket-money di 2,5 euro al giorno, era tenuto a firmare due volte al giorno dei moduli. (…) A volte eravamo noi operatori che apponevamo le firme mancanti. A me è capitato una volta di farlo, mancava circa il 20 per cento delle firme». Ma perché lo facevano? E se le firme erano false, allora come poteva Ecofficina comunicare alle autorità competenti il numero reale di profughi presenti nelle caserme venete? In fondo le gare milionarie bandite dalle prefetture variavano proprio al mutare del numero di profughi previsti. Lo conferma anche un’altra testimone: «Non riuscivamo mai a raccoglier­le tutte. Noi operatori ci ritrovavam­o in ufficio per apporre le firme mancanti: ci veniva chiesto dal nostro referente che a sua volta riceveva indicazion­i dai responsabi­li della cooperativ­a».

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Sovraffoll­a Una «camerata» all’interno dell’hub di Cona

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