Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
LAVORO. IL CONSENSO CHE SERVE
«Un apparato ideologic o da anni Settanta, per cui l’imprenditore viene visto come uno sfruttatore delle libertà altrui», incalzava qualche giorno fa su queste colonne Agostino Bonomo, presidente di Confartigianato Veneto, commentando ciò che il Governo gialloverde ha fatto (il Decreto Dignità) e intende fare (cambio di rotta sulle nuove infrastrutture e proposta di ri-nazionalizzare le autostrade) e ciò di cui non si sta occupando (una politica chiara a supporto dello sviluppo delle imprese esistenti e del lavoro autonomo). Ne è nato un dibattito, esteso al mondo industriale e sindacale, di cui sorprende soprattutto la convergenza sul tema del lavoro. Tutti d’accordo nel dire che il nuovo profilo del contratto a termine (riduzione della durata massima, riduzione del numero di rinnovi, reintroduzione della causale) porterà alla perdita di migliaia di posti di lavoro, che Veneto Lavoro stima in 4.500 per il Veneto. In uno scenario globale ancora molto incerto e minato dalla Guerra dei Dazi, la prudenza dei datori di lavoro nell’assumere con orizzonte indeterminato si deve alla scarsa visibilità su quello che succederà nei prossimi mesi, e ciò è ancora più vero per le imprese più piccole e per quelle inserite in filiere globali del valore. Questa incertezza è tutt’altro che una sensazione. È un dato di fatto e i numeri parlano chiaro.
Prendiamo come data di inizio il primo trimestre del
2014, che è il periodo in cui l’allora ministro Poletti «liberalizzò» i contratti a termine (aumento della durata massima, aumento del numero di rinnovi, eliminazione della causale: l’esatto contrario di quello che ha fatto il Decreto Dignità). Secondo i dati Eurostat, in Italia i contratti a termine sul totale degli occupati alla fine del primo trimestre del triennio 20142015-2016 erano rispettivamente il 12,6%,
12,9% e 12,7%, stabilmente sotto la media UE (che oscillava tra 13,4% e 13,7%). Nel 2017, la quota dei contratti a termine è passata al 13,8% (stesso valore della media UE), per schizzare a
15,7% a fine marzo 2018 (con la media UE ferma a 13,9%). Questi numeri ci dicono che le imprese non hanno abusato dei contratti a termine a danno dei lavoratori e quindi ha ragione Bonomo a dire che nel ripristino delle vecchie regole c’è un residuo di battaglia ideologica (di retroguardia). C’è bisogno di un impianto istituzionale che coniughi maggiori garanzie di stabilità occupazionale per i lavoratori con la domanda di flessibilità dei datori di lavoro (che non hanno nulla da condividere con la volgare definizione di «prenditori» usata da alcuni). Il primo passo è riprendere in mano il contratto a termine insieme al contratto a tutele crescenti. Nel 2014, Poletti liberalizzò il primo per dare uno stimolo al mercato del lavoro in attesa della riforma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Un anno dopo, con il Jobs Act arrivò il secondo, che in parte andava a soddisfare la stessa esigenza. Sono passati quasi cinque anni (un’eternità per i nostri tempi veloci) ed è ora che le Parti Sociali tornino a guardarsi negli occhi: suggeriscano il modo per integrare la riforma estemporanea del 2014 e quella più sistematica del 2015, pretendano dal Governo un un portafoglio di alternative contrattuali che rispondono a bisogni differenti e che rappresentano soluzioni realmente diverse (sul piano economico e organizzativo), reclamino interventi coerenti e incisivi sulle politiche attive del lavoro (dalla Naspi all’assegno di ricollocazione, passando per orientamento, riorientamento e formazione ricorrente).
Su questo fronte, alle Parti Sociali del Veneto sembra non mancare l’interlocutore di riferimento, visto che Elena Donazzan, assessore regionale al lavoro della Regione Veneto, in una nota diffusa lo scorso 2 agosto subito dopo l’approvazione del Decreto Dignità, ha scritto che «nel dibattito sul lavoro a termine, è giusto sostenere che il contratto a tempo determinato debba costare di più, ma questa è solo una parte della soluzione. Il punto fondamentale resta quello di garantire servizi di ricollocazione efficaci per chi si trova nella fase di transizione tra un lavoro e un altro».
Sui luoghi in cui affrontare il tema, tuttavia, si può fare di più rispetto alle proposte che circolano: invece di scendere in piazza a manifestare il dissenso, si provi a entrare nelle aule a discutere per costruire il consenso. Non mi riferisco alle aule della politica, perché ci serve e ci meritiamo un’autentica svolta ideologica (di avanguardia).