Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
La disfida del lampione e del Ragazzo con la rana
Nel 2013 fu sostituita la statua del «Ragazzo con la rana» Il professor Marasco: «Il fanale ottocentesco aveva tre braccia, quello attuale ne ha solo uno»
«Ma non doveva tornarci l’originale com’era?» Anthony Marasco, docente alla Nuova Accademia di Belle Arti (Naba) di Milano, allarga le braccia impotente. Ha riguardato dieci volte quelle immagini pubblicate su internet e in cartaceo negli archivi della veneziana Fondazione Cini: e qualcosa non torna. Questione di un lampione, si potrebbe intitolare questa storia. Un piccolo giallo che però da un semplice e incolpevole oggetto di arredo e illuminazione urbana di uno dei luoghi simbolo di Venezia si allarga agli scopi dell’arte e alla ricostruzione posticcia del passato quella che Hobsbawm chiamò invenzione della tradizione, insomma. Facciamo ordine. E partiamo dalle notizie, quelle fresche: a Rennes, Bretagna, la mostra che ha portato in città «Ragazzo con la rana», Boy With A Frog, la statua bianchissima e di classiche proporzioni di Charles Ray, va talmente a gonfie vele che ne è stata prorogata la chiusura. L’opera, che si trova nel chiostro del Convento dei Giacobini, «era stata giudicata persona non grata» a Venezia, ricorda il giornale Ouest France. E in effetti, da quando il 9 giugno 2009, in virtù di un accordo firmato due anni prima con l’amministrazione Cacciari, la Fondazione Pinault aveva collocato proprio a Punta della Dogana la statua di Ray, rimuovendo il vecchio lampione ottocentesco che vi aveva trovato posto fino ad allora, una ridda di polemiche quotidiane aveva investito l’opera d’arte, molto fotografata e amata dai turisti e dagli intenditori. «È troppo moderna!», «ci tolgono un simbolo!», «non c’entra niente!», scrivevano sui social i più gentili, perlopiù veneziani. «Furto di sovranità!», «i padroni della città siamo noi!», si accaloravano altri.
Nacque un comitato, una petizione, financo un gruppo Facebook, «Rivogliamo il lampione», dove sovranisti ante litteram in salsa lagunare si univano a qualche immancabile nostalgico dei bei tempi andati. Il Corriere del Veneto ci fece un sondaggio informale, che rivelò che una maggioranza schiacciante di interpellati era favorevole al ritorno del fanale. Qualcuno si inventò anche un pittoresco sit-in, in cui una decina di indignados del Canal Grande si fecero riprendere mentre brandivano lampadine indicando minacciosi il ragazzo con la rana. Finché, nell’esultanza generale, l’8 maggio 2013 il popolo veneziano si riprese il sacro suolo, e l’opera di Ray venne rimossa dal nuovo sindaco Orsoni. Al suo posto, tre settimane dopo, la ditta Neri di Longiano (ForlìCesena) ripristinava il lampione in ghisa coniato della fonderia Hasselqvist a metà Ottocento. E qui nasce il giallo. «Punta della Dogana torna alle origini», comunicò Neri l’indomani della posa, il 27 maggio 2013. «L’antico lampione originale di Punta della Dogana ha ripreso il suo posto. Il lampione appena reinstallato nella sua originaria collocazione è l’originale e non una ri- produzione», dichiarava l’azienda romagnola. «Quello montato è il reperto originale, inizialmente nato per essere adibito a faro per le imbarcazioni», confermarono le cronache. Qualche polemica c’era stata, in effetti. Tanto è vero che proprio in quei giorni la Neri si profuse in vari comunicati che ribadivano in termini categorici l’originalità del lampione: «nessuna riproduzione, nessun calco in qualche fantomatica fonderia, bensì il reperto originale», comunicò la ditta di Forlì. Eppure, Marasco ha trovato qualcosa che non collima con la memoria «ufficiale». «Sfogliando casualmente delle immagini della fototeca per una lezione di storia dell’arte contemporanea mi sono imbattuto in una foto del lampione ottocentesco», dice Marasco. «E ho notato che quel lampione aveva tre “braccia”, ovvero tre altre lampade oltre a quella del corpo principale, a differenza del lampione attuale, posato nel 2013, che è “monco”. C’è uno scorcio di Venezia in bianco e nero, non datato, che lo mostra chiaramente». Ma non solo.
Anche aprendo un file pdf che la stessa Neri ha messo online in occasione del proprio intervento ci si imbatte in una cartolina d’epoca, priva di data, che mostra chiaramente che lì, su quella sede, è esistito un lampione provvisto di lampade laterali, simile a quelli che si trovano tutt’ora in Piazza San Marco. Dunque radicalmente diverso da quello che sorge ora. Il che, sottolinea Marasco, non ha nulla di scandaloso: «la storia procede, le cose cambiano e si devono poter cambiare. Ma allora aveva senso parlare di storicità in termini così perentori?» Al professore si potrebbe obiettare che magari il lampione originale aveva già «perso le braccia» prima del 2009, e dopo che quelle foto erano state scattate. «Ma certo. Non contesto nulla alla ditta in particolare, che sicuramente avrà recuperato il tronco autentico. Il problema - prosegue Marasco è il discorso che ci venne propinato allora, da pubblico e privati. Quello della assoluta fedeltà ad un presunto originale. Il passato viene richiamato come normativo ma è sempre ricostruito a uso del presente. Anche stavolta. Quelli che avevano elevato il lampione a simbolo della venezianità contro l’odiato cosmopolitismo del mecenate Pinault - ci baciavamo sotto il lampione, viva la Serenissima, e così via - non si rendono conto che forse di lampioni originali ce ne sono stati più di uno».
Intanto, intorno al lampione, ecco l’ultimo colpo di scena. Una dichiarazione dello stesso Orsoni, datata 2011, che sembra cozzare direttamente con i report della stessa azienda forlivese. «Il lampione che c’era prima della rana non era quello antico», disse l’allora sindaco di Venezia ai giornalisti. «Il lampione originario era a tre braccia, quello che è stato rimosso per far posto all’opera di Pinault era a un solo faro ammise Orsoni -. Si sta cercando di rinvenire l’originale, se sapessi dov’è lo direi». Ecco. Mentre il ragazzo con la rana spopola in terra di Francia, forse in Laguna è tempo di dare la caccia a un lampione. O almeno alle sue braccia.