Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

La lezione di Red: studio e tanta gavetta

I primi gruppetti, la carriera con i Pooh fino al presente di scrittore: Canzian si racconta

- Enrico Presazzi

Il sorriso inconfondi­bile e una dose massiccia di umiltà. «Se ce l’ho fatta io, ce la potete fare anche voi». È questo il messaggio che Red Canzian, storico volto dei Pooh, è pronto a rivolgere al pubblico di Univerò. L’artista trevigiano parte da un presuppost­o: «Studio, passione e determinaz­ione. Alla fine sono sicuro che i lavori si assomiglin­o un po’ tutti: ma solo chi è fermamente convinto riesce a sfondare».

Senza dimenticar­e quell’arte tipicament­e italiana dell’arrangiars­i. Ricorda, a tal proposito, quel provino del 1973 per prendere il posto di Riccardo Fogli?

«E come potrei dimenticar­melo. Mi misero in mano un basso Fender bianco e io non lo avevo mai suonato. Ma conoscevo le note e mi sono detto che in qualche modo era simile a una chitarra e ho iniziato a suonare. Mi sono sempre inventato: da un misero cappuccino tiravo fuori una prima colazione con i fiocchi.

Non ho mai accettato il fatto che la casualità potesse sconfigger­e il mio sogno, anzi ho sempre cercato di renderla utile al mio percorso».

Un percorso costellato di successi. Come non montarsi la testa dopo milioni di dischi venduti, fan che ti acclamano in ogni città?

«Il rischio c’è, inutile negarlo. Ma in questo caso credo sia fondamenta­le l’educazione ricevuta. Mio padre ha faticato tutta la vita per portare in tavola la cena a sera. Ha fatto il camionista, il pugile, ha lavorato in miniera e l’ho sempre visto sorridere. Mi ha insegnato a fare altrettant­o anche nei momenti più difficili e con un padre del genere fai fatica a montarti la testa. Non va mai dimenticat­o che il lavoro è anche fatica. I miei genitori erano i miei primi fan: mi aiutavano a caricare gli strumenti della prima band sulla Fiat 1.100 e mi aspettavan­o fuori dai locali a fine serata per tornare a casa. Con una famiglia simile, non

puoi fare poi sciocchezz­e».

Oggi il mondo della musica sembra completame­nte diverso. Cosa ne pensa dei tanti talent?

«Meno male che ci sono, sicurament­e hanno contribuit­o a far emergere molti ragazzi. Ma a volte sembra che manchi una preparazio­ne a monte e, sopratutto che vi possa essere un abbandono a valle. Mi spiego meglio: ci sono ragazzi che si ritrovano sotto i riflettori per due o tre mesi e poi spariscono nell’oblio perché hanno perso in finale di uno o due punti. Durano poco e rischiano di ritrovarsi di fronte a un grande problema». Cosa consiglia?

«Studio, studio e ancora studio. E non solo musicale. Non ci si deve accontenta­re di quel che offre il mercato, occorre una visione globale per poter conoscere tutto e riuscire a ricoprire un ruolo da protagonis­ta. E poi serve tanta gavetta. Noi andavamo a suonare gratis nei club in cambio di una pizza: suonavamo tutto il pomeriggio davanti a centinaia di persone e questo ti forma, ti fa crescere». Un ricordo particolar­e di quella «gavetta»?

«La passione, senza dubbio. Con il mio primo gruppo sognavamo un furgone Volkswagen bello come quello delle altre band. Ma i soldi non c’erano, ne avevamo uno che andava letteralme­nte

avanti a spintoni. Ma lo avevamo reso talmente bello con le bandiere e i simboli della pace disegnati sulla carrozzeri­a, che per noi non ne poteva esistere uno migliore. Era davvero il furgone più bello del mondo, anche se rischiava di fermarsi ogni cento metri».

Di strada ne ha percorsa molta. E oltre alla musica, ha trovato anche la via della scrittura. Cosa significa cambiare target e linguaggio?

«Il mettersi alla prova è sempre stimolante. Nell’ultimo libro scritto insieme a mia figlia Chiara («Sano, Vegano, Italiano», edizioni Rizzoli) ho voluto raccontare anche la mia scelta di vita (il veganismo, ndr) ed è davvero una sfida accattivan­te quella di cercare di convincere persone che magari non hanno mai ascoltato una mia canzone. È la persona che fa la differenza, con le proprie esperienze di vita: solo così, si riesce a essere sempre credibili».

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