Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
La lezione di Red: studio e tanta gavetta
I primi gruppetti, la carriera con i Pooh fino al presente di scrittore: Canzian si racconta
Il sorriso inconfondibile e una dose massiccia di umiltà. «Se ce l’ho fatta io, ce la potete fare anche voi». È questo il messaggio che Red Canzian, storico volto dei Pooh, è pronto a rivolgere al pubblico di Univerò. L’artista trevigiano parte da un presupposto: «Studio, passione e determinazione. Alla fine sono sicuro che i lavori si assomiglino un po’ tutti: ma solo chi è fermamente convinto riesce a sfondare».
Senza dimenticare quell’arte tipicamente italiana dell’arrangiarsi. Ricorda, a tal proposito, quel provino del 1973 per prendere il posto di Riccardo Fogli?
«E come potrei dimenticarmelo. Mi misero in mano un basso Fender bianco e io non lo avevo mai suonato. Ma conoscevo le note e mi sono detto che in qualche modo era simile a una chitarra e ho iniziato a suonare. Mi sono sempre inventato: da un misero cappuccino tiravo fuori una prima colazione con i fiocchi.
Non ho mai accettato il fatto che la casualità potesse sconfiggere il mio sogno, anzi ho sempre cercato di renderla utile al mio percorso».
Un percorso costellato di successi. Come non montarsi la testa dopo milioni di dischi venduti, fan che ti acclamano in ogni città?
«Il rischio c’è, inutile negarlo. Ma in questo caso credo sia fondamentale l’educazione ricevuta. Mio padre ha faticato tutta la vita per portare in tavola la cena a sera. Ha fatto il camionista, il pugile, ha lavorato in miniera e l’ho sempre visto sorridere. Mi ha insegnato a fare altrettanto anche nei momenti più difficili e con un padre del genere fai fatica a montarti la testa. Non va mai dimenticato che il lavoro è anche fatica. I miei genitori erano i miei primi fan: mi aiutavano a caricare gli strumenti della prima band sulla Fiat 1.100 e mi aspettavano fuori dai locali a fine serata per tornare a casa. Con una famiglia simile, non
puoi fare poi sciocchezze».
Oggi il mondo della musica sembra completamente diverso. Cosa ne pensa dei tanti talent?
«Meno male che ci sono, sicuramente hanno contribuito a far emergere molti ragazzi. Ma a volte sembra che manchi una preparazione a monte e, sopratutto che vi possa essere un abbandono a valle. Mi spiego meglio: ci sono ragazzi che si ritrovano sotto i riflettori per due o tre mesi e poi spariscono nell’oblio perché hanno perso in finale di uno o due punti. Durano poco e rischiano di ritrovarsi di fronte a un grande problema». Cosa consiglia?
«Studio, studio e ancora studio. E non solo musicale. Non ci si deve accontentare di quel che offre il mercato, occorre una visione globale per poter conoscere tutto e riuscire a ricoprire un ruolo da protagonista. E poi serve tanta gavetta. Noi andavamo a suonare gratis nei club in cambio di una pizza: suonavamo tutto il pomeriggio davanti a centinaia di persone e questo ti forma, ti fa crescere». Un ricordo particolare di quella «gavetta»?
«La passione, senza dubbio. Con il mio primo gruppo sognavamo un furgone Volkswagen bello come quello delle altre band. Ma i soldi non c’erano, ne avevamo uno che andava letteralmente
avanti a spintoni. Ma lo avevamo reso talmente bello con le bandiere e i simboli della pace disegnati sulla carrozzeria, che per noi non ne poteva esistere uno migliore. Era davvero il furgone più bello del mondo, anche se rischiava di fermarsi ogni cento metri».
Di strada ne ha percorsa molta. E oltre alla musica, ha trovato anche la via della scrittura. Cosa significa cambiare target e linguaggio?
«Il mettersi alla prova è sempre stimolante. Nell’ultimo libro scritto insieme a mia figlia Chiara («Sano, Vegano, Italiano», edizioni Rizzoli) ho voluto raccontare anche la mia scelta di vita (il veganismo, ndr) ed è davvero una sfida accattivante quella di cercare di convincere persone che magari non hanno mai ascoltato una mia canzone. È la persona che fa la differenza, con le proprie esperienze di vita: solo così, si riesce a essere sempre credibili».