Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Berto, l’esilio volontario di un irregolare della letteratura
Un irregolare in esilio (volontario)
Forse non è un caso se, nella monumentale opera che dedicò agli autori italiani del Novecento, Moderno antimoderno (Aragno), Cesare De Michelis fece precedere il capitolo dedicato a Giuseppe Berto e alla sua «umanità» da uno dedicato al «giovane Vittorini». Cioè all’Elio Vittorini fascista: quello che, molto prima di essere stato il grande importatore della cultura americana in Italia, prima della militanza nel PCI e della successiva rottura con Togliatti, si era scagliato, da mussoliniano convinto, contro massoni, comunisti, liberali e borghesi. Quello che aveva la tessera del Pnf e ricordava con nostalgia la marcia su Roma. In dieci anni era cambiato tutto, o quasi: molti italiani si camuffarono, passarono il guado, scelsero vestiti nuovi o semplicemente cambiarono idea. Ed è qui, per contrasto, che Berto, di cui ieri ricorrevano quarant’anni esatti dalla morte, appare nella sua propria luce. Lo scrittore di Mogliano Veneto aveva aderito convintamente al fascismo, eppure non lo ritroviamo, dopo il 1945, tra le file dei «resistenti» e dei «liberatori» che costituiscono la nuova ortodossia della cultura italiana, come accadde con Vittorini che pure vi metteva l’estro e la vivacità intellettuale che gli erano propri. Né lo scopriamo a pontificare sulla retorica della nuova vita repubblicana, come fecero tanti ex. E oggi che le parole «fascista» e «antifascista» vengono riesumate nello stantio dibattito politico italiano ed è tutto un accusarsi reciproco di far rivivere il Ventennio o di volerlo viceversa dimenticare, parlare dell’autore di quel capolavoro che è Il male oscuro è anche un modo per chiedersi se il fascismo stia tornando, come dice qualcuno, se sia morto e sepolto o se in realtà non se ne sia mai davvero andato. Per esempio Antonio Scurati, che ha appena scritto M. Il figlio del secolo (Bompiani), acclamata e dibattuta autobiografia immaginaria del Duce, di Berto dice, come per Mussolini: «parlare della sua vita è parlare della biografia di una nazione». Esiste un livello storico, secondo Scurati, che nell’autore si sovrappone e forse addirittura si fonde con quello personale: «Berto appartiene a quella piccola borghesia che dopo la fine della Prima guerra mondiale si sente disillusa e tradita dalla casta politica. Un sentimento simile a quello di oggi. Poi c’è il Ventennio e il dopoguerra. E nel 1964, quando Neri Pozza pubblica Il male oscuro, di Berto si può dire che era stato fascista. Uso il trapassato prossimo non a caso: lo era stato in modo pieno e convinto. Anche nel libro dà conto di episodi rivelatori: c’è un passaggio in cui il bambino Berto si fabbrica una tessera di cartone del PNF e viene picchiato da un fascista più grande che lo considera un usurpatore». Scurati non ha dubbi sull’adesione dello scrittore al regime: «Aveva combattuto con onore nell’Impero, guadagnandosi sul campo medaglie al valore. Era un colonialista, parte di quell’Europa che ancora si sentiva di andare virilmente e patriarcalmente alla conquista del mondo. A guerra iniziata si arruola nella MVSN, la quintessenza del fascismo, e va a combattere in Africa». In Libia Berto viene fatto prigioniero, poi spedito in America in campo di concentramento, a Hereford. Rientra in patria a guerra finita, «eppure, anche se non era più fascista, non si considerò mai un antifascista», sottolinea Pierluigi Battista, che di recente ha ricordato Berto proprio con Scurati, in un convegno a Milano. «Il fatto interessante di Berto secondo me non è il “durante”, cioè l’adesione che fece al regime come milioni di altri italiani - spiega Battista - ma il “dopo”. Berto detestava la retorica dell’antifascismo, e rifiutò quello che Fenoglio chiamò il lavacro purificatore della resistenza partigiana. Aderì invece alla corrente definita da Raffaele Liucci “anti-antifascismo”: che non è essere fascisti, ma provare insofferenza, irritazione, persino fronda verso la grande unità culturale antifascista. Un destino che Berto condivise con Guareschi, Ansaldo, Montanelli, e in cima a tutti Leo Longanesi». Confinatosi al di fuori dei giri dell’intellighenzia, Berto rimase un esiliato volontario, un rancoroso. E riversò questo suo sentimento nella scrittura. Scurati: «la sua opera maggiore, e quindi la sua nevrosi, va riletta come dramma storico, non dramma da camera. Berto ha vissuto i due tempi del male del Novecento: il primo tempo è quello del vivere pericolosamente, drammatizzando la propria vita; il secondo è quello di un dramma senza tragedia, in cui i tormenti e le passioni sono tutti in una cavità interiore, che non trova riscontro nel mondo esterno. Il senso di colpa è tale perché le due metà di quest’uomo non possono incontrarsi, né trovare conciliazione. Ecco la scissione, in cui viviamo anche noi: siamo guerrieri da salotto, per lo meno quelli della mia generazione».