Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
«Il batterio killer? Ho scoperto io perché è morto mio marito»
La signora De Lorenzi: «Nessuno aveva legato l’endocardite all’intervento al cuore»
NERVESA DELLA BATTAGLIA (TREVISO) Maria Rosa Frassetto, vedova dell’ex assessore vinto dal batterio killer Giovanni De Lorenzi, accusa: «Non c’è stata nessuna allerta nella Sanità veneta, ho scoperto io su Internet cosa aveva Giovanni. Lui ha lottato come un leone ma è stato divorato dal batterio».
NERVESA DELLA BATTAGLIA Sapere com’è stato possibile e di chi è la responsabilità di quello che è successo. Questo si aspetta dalla relazione degli ispettori della Regione e dalla magistratura, Maria Rosa Frassetto la moglie di Giovanni De Lorenzi, vittima trevigiana del batterio killer. Il marito è morto nel gennaio scorso per un’endocardite provocata da quello che Maria Rosa chiama «il Chimera», e cioè il batterio «Mycobacterium chimaera» che, annidatosi nel serbatoio di un macchinario utilizzato per la circolazione extracorporea durante gli interventi al cuore, avrebbe provocato la morte di altre cinque persone e infettato centinaia di pazienti. Assistita dall’avvocato Simone Zancani, l’ex insegnante ha fatto causa all’ospedale Ca’ Foncello di Treviso dove il marito era stato operato nel 2011 e ora vuole risposte.
” La moglie Giovanni ha fatto una morte tremenda, divorato dal batterio
Signora Frassetto, la quale la vicenda è diventata pubblica. Come vive questo momento?
«Con grande dolore, perché rivivo la sofferenza di mio marito, il dolore fisico e psicologico che ha provato. Giovanni ha fatto una morte tremenda, è stato letteralmente divorato da quel batterio e io non posso non chiedermi perché sia potuto succedere. Mi sono anche data una spiegazione del perché il batterio, che prolifera negli organismi immunodepressi, lo abbia colpito in modo così violento. Ed è legata ad un’altra tragedia della nostra famiglia. Mio marito era provato dalla vicenda di Veneto Banca, sconvolto da come i poteri forti e gli intrallazzi della politica abbiano potuto fare scempio dei risparmi delle persone».
Quando è iniziato il calvario di suo marito?
«È iniziato, silenziosamente, nel 2011. Quando è stato operato all’ospedale Ca’ Foncello di Treviso per la sostituzione di una valvola cardiaca. Sembrava fosse andato tutto bene, fino al maggio del 2016 quando ha iniziato a stare male, febbricola, spossatezza e affaticamento mentale, dimagrimento».
Cosa avete fatto?
«L’ho portato da vari medici ma nessuno, mai, ha messo in relazione le sue condizioni con quell’intervento del 2011. Cosa che io invece ho fatto subito, con una semplice ricerca su internet. Ma nessuno mi ascoltava. Fino a quando è stato ricoverato a Castelfranco Veneto per un ictus provocato da un embolo partito dall’infezione della valvola cardiaca. È iniziata la cura antibiotica, ma neanche in quel momento gli è stata fatta un’emocoltura per stabilire cosa l’avesse provocata. Quella è stata fatta solo nel gennaio successivo quando finalmente abbiamo saputo che stavamo combattendo contro il “Chimera”».
Perché secondo lei avrebbero dovuto collegare l’infezione all’intervento anche se erano passati molti anni?
«Perché se è vero che dal 2011 Vicenza era stata allertata per un problema di questo tipo, che era stata disposta la disinfezione del macchinario, allora ci sarebbe dovuta essere un’allerta generale. Avrebbero dovuto richiamare i pazienti. Fare accertamenti. Invece nulla di tutto questo è stato fatto. Perché solo adesso si stanno muovendo? Nessuno era in allarme, né i medici ospedalieri, né i medici di base ai quali ci siamo rivolti. Solo noi eravamo preoccupati. Credo che in questo ci sia una grande responsabilità da parte del Ministero della Salute, che avrebbe dovuto agire in modo diverso».
Lui si è battuto come un leone ma alla fine non è riuscito a vincere
Cosa si aspetta ora dalla magistratura?
«Voglio la verità, sapere perché è successo e chi è il responsabile della morte di mio marito. Lui ha combattuto come un leone, aiutato dal primario Piergiorgio Scotton nel reparto di malattie infettive dell’ospedale di Treviso. Si nutriva di medicine, si sforzava di mangiare anche quando non riusciva più a deglutire perché voleva vivere. Non ce l’ha fatta. E ora per me, combattere questa battaglia per la verità, purtroppo significa anche rivivere tutto il suo dolore. Ma glielo devo. Vorrei anche incontrare i famigliari di Paolo Demo e leggere il suo diario, per confrontarlo con quel diario del dolore che ho vissuto insieme a Giovanni».