Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Istantanee
Ci sono mille motivi per correre. Per passione, per paura. Per acchiappare al volo un treno. A volte corri per lavoro, capita pure questo. Ma puoi anche correre per gli altri. Quella di Roberto Filippi, campione silenzioso del pallone italiano, è stata una corsa lunga vent’anni. Vent’anni di professionismo per «Furia», 169 centimetri e pochi chili di nervi, velocità ma anche di classe e di talento. Talento partito con il Chioggia nel 1968, a vent’anni, e chiuso al Lanerossi Vicenza nel 1987.
Un circuito aperto con Rivera e Mazzola e chiuso con Maradona, Platini e il primissimo Roby Baggio. E lui sempre lì, a dare il meglio tra fascia a tre quarti campo, a lato e dietro le punte. A correre e a mettere cross e filtranti rasoterra, che ci fosse Rossi o Savoldi da servire non faceva differenza. E giusto 40 anni fa, Filippi diventa un piccolo idolo con il Real Vicenza di Gibì Fabbri che stupisce il mondo del calcio, arriva secondo in serie A dietro alla Juve e nella memoria degli appassionati diventa una filastrocca quasi come la superba Inter di Herrera o il grande Torino: Galli, Callioni, Lelj, Guidetti, Prestanti, Carrera, Cerilli, Salvi, Rossi, Faloppa, Filippi. Era il campionato ‘77-78 e la Rai mandava in onda le prime trasmissioni a colori. Tant’è. Un’altra Italia, un altro calcio, un altro mondo. Dove un ragazzo con i capelli lunghi e i baffi da pirata non passava inosservato.
Filippi, partiamo da Padova e dal Padova, dove c’è un ragazzino che pensa quasi solo al pallone...
«Parrocchia della Murialdina, avevo 11 o 12 anni, pallone tra i piedi da mattina a sera. Niente di organizzato, tanta passione. Finché con un amico vado a fare uno dei provini al Padova».
Allo stadio Appiani, ovviamente.
«All’Appiani, sì. E chi lo aveva mai visto prima? Eravamo forse centocinquanta ragazzini. A vederci c’era Mariano Tansini, un monumento del calcio giovanile padovano. Io avevo un paio di scarpini presi in prestito, non proprio puliti... Tansini nemmeno mi fa scendere in campo e ritorno a casa senza aver giocato».
E quindi?
«E quindi mi dico “col cavolo che ritorno qui”. E invece la