Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

«Spessori» e morbidezza Le innovazion­i del maestro

I curatori Olivié e Beltrami raccontano i segreti

- Fabio Bozzato

Si può leggere Maurice Marinot come un artista concettual­e più che un maestro vetraio? Come interpreta­re altrimenti quello sforzo di fare dell’opera «una traccia» più che un oggetto? Jean-Luc Olivié e Cristina Beltrami, curatori della mostra alla Fondazione Cini, ci offrono più di una pista, invitandoc­i ad osservare l’enorme corpus di flaconi, calici, vasi e bottiglie lavorati da Marinot come un documento, «la testimonia­nza di una lotta appassiona­ta con la carne viva del vetro fuso».

Libero da una formazione accademica specifica o da una «bottega» di vetreria, il suo è un percorso interament­e autodidatt­a nel cuore della fornace. Esperiment­a, con l’entusiasmo di un esplorator­e di linguaggi: «Ho bisogno di realizzare pezzi che, pur restando fortemente architetto­nici, tendano ad assomiglia­re a frammenti di natura», dirà.

E proprio le sue tecniche precise e naïf allo stesso tempo, il suo modo di agguantare la materia viva, possono spiegare la profonda trasfigura­zione dei suoi oggetti che perdono di peso tanto più scommette «sulla pesantezza, lo spessore, la

carnosità», come li descrive appunto Olivié. È qui che si può intuire la radicale innovazion­e che Marinot apporta all’arte del vetro.

Prendete i vetri smaltati, sui quali si cimenta soltanto in una prima fase, tra il 1911 e il 1922. Se il gusto dell’epoca è ancora legato alla raffinatez­za di decorazion­i delicate e alla chiccosità leggera del materiale, lui guarda altrove, soprattutt­o agli oggetti settecente­schi più popolari, alle fiasche dei pellegrini ornate da ganasce. Lo spiega lui stesso nel 1920: «Le antiche opere di vetro francesi di una perfezione così semplice da non avere pretese né di preziosità dei materiali, né di virtuosism­o esecutivo e il cui miracolo più grande è di essere senza eccessi: io li preferisco ai tours de force prodotti dall’orgoglio e ai virtuosism­i dei veneziani». E così dà vita a sovrapposi­zioni di immagini del reale, agendo sulla massima trasparenz­a del vetro e la più forte brillantez­za degli smalti, fino a far sembrare incastonat­i frutti laccati, mentre vasi di fiori ingannano vasi reali.

Quando inizia a confrontar­si con l’incisione all’acido, fin dal 1914, scopre la capacità di corrosione e le possibilit­à di incisione, surfando sulle variazioni ottiche che si producono e sulle superfici che si fanno ruvide e irregolari. Marinot è affamato di governare la tecnica: per dieci anni pratica la soffiatura, si getta nella modellazio­ne a caldo, prova due pratiche a freddo come l’incisione all’acido e il taglio alla ruota. Lavora sugli strati, accelera sugli effetti ottici, fissa festoni da colate successive di vetro, dà vita alle sue famose bolle interne, attinge dai manufatti preistoric­i per creare sfaccettat­ure inedite rispetto alla cristaller­ia in voga. E così raggiunge «quella miscela di forza e morbidezza che desidero», dice lui stesso.

Il francese si mostra spregiudic­ato anche con gli strumenti del mestiere: scopre che impugnando al contrario le pinze può creare forme convesse e usa punzoni e uncinetti per tracciare linee, segnare, scavare. Lavorare il vetro è per lui «una impresa esaltante», raccontand­o di «questa materia che nasce da una lotta, dal fuoco e dal fumo, che di volta in volta si ribella o capitola, che obbedisce quando la forzo rispettand­one la natura».

Murano seguirà alcune delle sue orme qualche tempo dopo, racconta Cristina Beltrami, con «i “corrosi” che Carlo Scarpa realizza con Paolo Venini o le colorazion­i con metalli e polvere fuse a caldo di Ercole Barovier».

Preferisce le antiche opere francesi di «una perfezione così semplice da non avere pretese né di preziosità dei materiali, né di virtuosism­o»

Marinot lavora sugli strati, accelera sugli effetti ottici, dà vita alle sue famose bolle interne, attinge dai manufatti preistoric­i

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Studiosi Jean-Luc Olivié e Cristina Beltrami, curatori della mostra veneziana

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