Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
LA FALANGE NORDEST
Il nuovo Capitano del Paese, Matteo Rosario Salvini, ieri ha ringraziato per la straripante vittoria della Lega tenendo in mano i simboli del neo cattolicesimo sovranista, sapendo però che il vero protettore lassù in cielo – perfino al di là dei suoi meriti - è stata la galassia Cinque Stelle. Che ora rischia di infilarsi in un buco nero, costretta a decidere come morire: annegando per asfissia nell’attuale governo a consenso invertito oppure sciogliendo il patto e cercando fortuna con nuove elezioni.
Se è vero che il M5s ha ancora i voti in parlamento, è evidente che Salvini presenterà per intero il suo conto. Con parole d’ordine rilanciate a risultato acquisito: Tav, autonomie regionali, flat tax, sicurezza bis. Tanto per gradire. Parole indigeribili per i Cinque Stelle, che dovranno appunto scegliere come uscire dal labirinto. Tergiversare su tutto? Respingere qualcosa e ingoiare il resto? Staccare la spina? O aspettare che sia il Capitano a farlo, per il momento la cosa più improbabile del mondo?
Uno scacco matto. Da vero «oppositore» nel governoossimoro (dove c’è tutto e il contrario di tutto), Salvini è riuscito a capitalizzare con il voto europeo il consenso del Nord, del Centro e di una parte del Sud.
La valanga leghista è rotolata dal Brennero a Lampedusa con parole d’ordine (anche etimologicamente) nette: migranti- sicurezzanazione al Centro Sud e infrastrutture-autonomiemigranti-sicurezza-nazione al Nord. Gli elettori hanno creduto a lui e in lui. Né al reddito di cittadinanza né al decreto dignità e tantomeno al tema della corruzione. Gli hanno creduto soprattutto qui, nell’epicentro del successo, il collegio-falange del Nordest, che con il 41% timbra il record italiano di voti. Un fiume in piena nel Veneto di Zaia, un flash da epopea democristiana. Il 49,8 per cento a livello regionale, tutti i capoluoghi conquistati, bandiera verde sul Ponte di Bassano, il vezzo del 79 per cento a Foza, sull’Altopiano di Asiago che fu di Rigoni Stern. E che dire del Trentino? Lega ancora primo partito in provincia dopo il primato alle recenti Provinciali ma con il massimo storico dei voti; caduta
Rovereto, ex roccaforte del centrosinistra; salvo solo il castello di Trento, dove il Pd resta il primo partito. E poi Bolzano, dove nella città retta da una giunta Pd la Lega diventa il primo partito. Ma il risultato storico, per Salvini, è quello dell’Emilia Romagna: primo anche qui, mai successo, dato che suona come un avviso di sfratto al Pd alle prossime regionali, dove la poltrona di Bonaccini è sempre più contendibile. Tiene Bologna, dove i dem reggono bene in una sorta di sussulto da nemici alle porte. Un Pd aiutato come altrove, paradossalmente, proprio da Salvini, che radicalizzando la campagna elettorale ha coalizzato quel mondo cattolico e di sinistra che ha risposto «presente». Se La Lega ha fatto il pieno con le sue parole d’ordine, il Pd è ridiventato la «seconda gamba» del Paese usando in direzione ostinata e contraria l’anti-narrazione del progetto politico e «antropologico» del Capitano.
Lo si è visto soprattutto nelle metropoli, da Milano a Roma alla stessa Bologna, ma per il resto in tavola c’è pane sovranista. Non solo nelle pedemontane e nelle periferie ma nelle stesse città medie. Una spinta coniugata all’insofferenza della classe imprenditoriale che ha visto in Salvini sia una forma convinta di rappresentanza sia il «male minore» in assenza di una classe dirigente alternativa. Superando perfino un proclamato euro-scetticismo in chiave nazionalista. Di chi la colpa di non aver portato a casa la Tav, di osteggiare la Pedemontana veneta con tanto di ministro all’Ambiente grillino che manda i carabinieri nei cantieri, di tergiversare sul tunnel del Brennero o sulla nuova Valdastico tra Veneto e Trentino, di aver bloccato o rallentato il nodo infrastrutturale emiliano del Passante di mezzo a Bologna o il progetto della CampogallianoSassuolo, la strada delle piastrelle dove un gran pezzo di Pil sta in coda ogni giorno per ore? Dal Veneto, perfino, gli stessi imprenditori avevano accusato la Lega a brutto muso: «Ha barattato una nave di migranti con la crescita». Eppure ha vinto lui, Salvini. Nonostante tutto. La colpa nell’urna è stata rifilata ai Cinque Stelle, semi scomparsi dal radar del consenso. Non a Salvini,che al governo c’era (e c’è) e sui temi della crescita non è riuscito a farsi valere. Potrà farlo adesso, con il pieno di voti in dote e la responsabilità di portare a casa le «partite» storiche delle regioni della Falange. Riuscirà la Lega a imporre le grandi opere? Riuscirà nella flat tax? E soprattutto ce la farà a far ingoiare al Movimento ormai mezzo fermo la partita dell’autonomia, che tradotta in soldoni - a parte un sacrosanto riequilibrio virtuoso del federalismo degli sprechi significherà togliere al Sud un po’ di risorse per darle al Nord? Quel Sud dove il Pns (Partito nazionale di Salvini) dovrà necessariamente non perdere consensi? Tutte risposte che il capo (anche) della Falange Nordest dovrà dare all’altra meno volatile Falange, quella economica. Che guarda all’Europa come mercato e come entità politica che la difenda nella sfida della globalizzazione. Un’Europa da riformare (e subito). Non certo da demolire.